Quando, a inizio marzo, Pallotta decise che era arrivato il momento di esonerare Eusebio Di Francesco, in molti, me compreso, erano convinti che si trattasse della scelta sbagliata. 

Eppure l'emotività del momento, estremamente negativo, all'epoca aveva esasperato gli animi: la Roma, già buttata fuori dalla Coppa Italia con violenza dalla Fiorentina, era reduce dalla pesante sconfitta nel derby (3-0) e dalla cocente eliminazione negli ottavi di finale di Champions per mano del Porto: un'altra squadra che, per valore della rosa, era inferiore - come la Viola e forse la stessa Lazio - alla Roma stessa. Un segnale evidente di perdita del controllo da parte di DiFra, che pure era reduce da un viaggio europeo memorabile, quello dell'anno precedente, viaggiava alla media del 48% di vittorie stagionali, e che veleggiava, in campionato, a ridosso della zona Champions.

Milan 51, Inter 50, Roma 47.

Così recitava, nei giorni dell'allontanamento, la classifica dal 3° al 5° posto.

Insomma, il dramma globale e irrimediabile era ancora recuperabile, ma per riuscirci, Roma e la Roma pensarono - a posteriori, bene - di riportare a casa un loro figlioccio prediletto.

Un uomo universalmente ritenuto serio, alla mano, moderato, lungimirante, saggio. Un romano e romanista come pochi. Un tecnico preparato, intelligente, capace di un'impresa epocale, in carriera, ma anche reduce da diversi tonfi.

Un "normalizzatore", per usare un termine che va di moda, nell'ultimo lustro calcistico.

Claudio Ranieri, alle porte dei 68 anni, s'è voluto rimettere in gioco, e l'ha fatto col solito polso, il sorriso affabile e la sobria spregiudicatezza di chi sa che - più o meno improvvidaménte - sta per accettare una sfida che potrebbe durare anche solo tre mesi scarsi.

+

Oggi, dopo 50 giorni, il suo obiettivo è virtualmente raggiunto. Quando scriviamo, il Milan deve ancora giocare la sua partita contro il Torino, e l'Inter ha impattato contro la non impeccabile Juventus degli ultimi 20 giorni. E la sua Roma, che ha fatto, come da previsioni, un sol boccone del Cagliari, è finalmente quarta, sì a -4 dall'Inter, ma anche a +2 sul Milan e sull'Atalanta (che però può ancora, facilmente, superarla, battendo lunedì l'Udinese in casa).

E non grazie al ritorno al gol di ìDzeko (che nella sua gestione ha segnato solo una volta), o alla sobrietà di Olsen. Non grazie alle prodezze di Zaniolo, lanciato da Di Francesco e che, in verità, con il cambio di guida tecnica forse è anche calato nelle prestazioni.

No: la Roma è tornata ad essere, almeno temporaneamente, la quarta forza del campionato sì per via delle (gravi) mancanze altrui, ma anche perché finalmente è tornata ad essere sé stessa. Con i suoi difetti, ma anche i suoi pregi. E, soprattutto, una ritrovata solidità che rispecchia perfettamente quella, non solo morale, di Sor Claudio. Che è ripartito dal suo 4-4-2, per poi capire, per strada, che Schick non era in grado di fare la seconda punta (o, forse, ancora non lo è) e che si poteva ancora tirar fuori tanto da gente come Pastore, Kluivert e Perotti, che in precedenza, per l'uno o per l'altro motivo, non avevano avuto spazio. 

Con la consapevolezza che la difesa faceva acqua da tutte le parti, ma anche che i difensori si fanno inevitabilmente influenzare, nel loro rendimento singolo e di reparto, dalle incertezze del proprio portiere, ha escluso il titolare e dato fiducia ad un senatore del nostro campionato come Mirante, che l'ha ripagato a suon di ottime prestazioni e con il 60% di clean sheets. 

+

Il tutto, mentre lo zio, o forse il nonno, più amato del calcio, strigliava i suoi dall'area tecnica più umida d'Italia. Sotto la pioggia battente, o il caldo afoso che a breve si abbatterà sulla Capitale, incurante di tutto, solo per l'amore, puro e indefesso, della sua città e della sua squadra.

Una fede, anzi due, da difendere, (soprattutto) quando l'incarico è così gravoso, seppur breve, ma intenso. E che esprime a cuore aperto, e a gran voce, quando, inevitabilmente, gli si chiede cosa si pensa - come fosse un tifoso qualsiasi - di colui che potrebbe a breve prendere il suo posto.

Perché zio Claudio è perfettamente consapevole del fatto che, a prescindere dal quarto posto, potrebbe andar via, ma anche che, sotto sotto, se davvero riuscisse anche in questa piccola impresa, fondamentalmente meriterebbe di essere confermato. Ma non lo dirà mai, statene certi. 

E' sicuramente più facile, per uno come lui, guardar fisso in camera, con gli occhi languidi di chi ti vuole bene, e sa come farsi voler bene, e augurarsi che arrivi Conte al posto suo. Anche perché, Conte o non Conte, con o senza il quarto posto o il suo compito sarebbe portato a termine. 

Ci ha messo la fede, anzi due. Ci ha messo il cuore. Ci ha messo l'esperienza, ci ha messo tutto. E questo, comunque vada, sarà sufficiente per rendere il su ritorno a Roma, nella sua Roma, memorabile. 

E non solo per i romani e romanisti come lui.

“Io penso al bene della Roma, per cui se si parla di Conte tanto di cappello, vado a prenderlo all’aeroporto”.