23 maggio, ore 22.51.

Il Napoli è Campione d'Italia. Se quello di due anni fa era lo scudetto sognato e bramato dopo 33 anni, questo è sicuramente lo scudetto della consapevolezza. Consapevolezza di avere una società in grado di tenere alto il livello e la competitività per anni. Di riprendersi e ritrovarsi dopo un'annata (forse l'unica dell'era De Laurentiis) disastrosa, chiusa al decimo posto e con 3 allenatori ad alternarsi sulla panchina. Consapevolezza che, appunto, quell'annata era solo un caso isolato. Perché lo scudetto è tornato, insperato. Ed è tornato con Antonio Conte.

Chi avrebbe mai detto che un figlio del Sud, cresciuto con la fame di chi non ha niente da perdere, sarebbe diventato il primo allenatore del Sud a vincere uno scudetto con una squadra del Sud? Un uomo che negli anni è stato simbolo di juventinità, mentalità ostile ai tifosi del Napoli. Antonio Conte, pugliese, tenace, viscerale. Uno che non si è mai nascosto, nemmeno quando era più facile farlo.

 

La grinta di Antonio Conte (Getty Images)
La grinta di Antonio Conte (Getty Images)

Quando Conte è arrivato a Napoli, in molti hanno storto il naso. “Non è l’uomo giusto per questa piazza”, dicevano. Troppo duro, troppo schietto, troppo incompatibile con Aurelio De Laurentiis ed il suo modo di fare impresa. "Chiederà calciatori sul mercato fuori dai parametri di De Laurentiis". Ma Antonio Conte si è saputo imporre, anche nelle scelte di mercato con il diesse Manna. Tra l'altro, Napoli, in fondo, ha sempre avuto bisogno di qualcuno che sapesse cosa vuol dire soffrire e lottare per raggiungere un obiettivo insperato. Che sapesse guidare, urlare, resistere. E chi meglio di lui?

Uno che ovunque è andato ha lasciato un segno indelebile. Alla Juve ha ricostruito un impero. Con la Nazionale ha fatto sognare i tifosi una estate intera con Eder e Pellè in attacco. Al Chelsea ha conquistato la Premier. All’Inter ha spezzato l’egemonia bianconera. E ora a Napoli, ha fatto ancora di più: ha scolpito il suo nome nella storia con un’impresa memorabile. Antonio Conte non ha semplicemente allenato una squadra. Ha stretto un patto con una città. Ha fatto della fatica un valore, della fame un credo. Ha ridato un’identità feroce a un gruppo che rischiava di smarrirsi tra le luci sbiadite del trionfo passato.

Antonio Conte con Romelu Lukaku (Getty Images)
Antonio Conte con Romelu Lukaku (Getty Images)

E lo ha fatto con quella che, diciamoci la verità, non era la squadra più forte del campionato. Era una squadra ferita, smarrita, orfana di certezze. Ma Conte ha preso ciò che aveva e lo ha esaltato. Ha dato identità, struttura, disciplina. Ha costruito un sistema di gioco solido, feroce e duttile. La duttilità, appunto, che ha stupito stampa e addetti ai lavori. Partendo dalla sua certezza, il 3-5-2. Cambiando dopo le prime 2 giornate ed un mercato che gli ha regalato sul finale McTominay, Lukaku, Neres e Gilmour. Quel 4-3-3 che ha fatto sognare i tifosi riportandoli a due anni fa. Mentre Conte tornava alle sue radici, all'esperienza al Bari che lo ha fatto conoscere alla Serie A. Ma poi la cessione di Kvara, i continui infortuni di Neres. E allora che si fa? Si ripesca Raspadori, 3-5-2 e all'occorrenza di nuovo 4-4-2. Ancora infortuni, Olivera centrale di difesa. Ma non importava, l'obiettivo era fissato, la strada era segnata. 

 

Il condottiero Conte con il suo gruppo (Getty Images)
Il condottiero Conte con il suo gruppo (Getty Images)

E in un calcio che spesso premia chi ha di più, lui ha vinto con quello che c’era, semplicemente facendolo rendere come mai prima. Ed è proprio lì che si misura un grande allenatore. Antonio Conte da Lecce, campione d'Italia con il Napoli.

Non sappiamo cosa ci riserverà il futuro. Ma oggi possiamo dire che Napoli ha riscritto la geografia del calcio. Che questo scudetto ha l’accento del Sud, il cuore di chi lotta, e la firma di un uomo che a Sud ci è nato.