Il 5 luglio del 1962 l’Algeria proclama la sua indipendenza dalla Francia. Fine della dominazione, fine della guerra iniziata nel novembre di otto anni prima. La “Quinta Repubblica” di Charles de Gaulle cede un’altra regione colonica liberando un’altra bandiera. La guerra non è finita, ma da qualche parte il sangue non è stato versato invano. E non toccate le ferite agli algerini, perché sono ancora fresche.
Quattro anni dopo, nel ’66, Gillo Pontecorvo racconta la resistenza nella Casba con uno dei suoi capolavori, “La battaglia di Algeri”, vincendo il Leone d’oro a Venezia con uno tra i più grandi film prodotti nel Novecento italiano. Le scene di Pontecorvo, che ottiene la collaborazione del governo algerino per svolgere le riprese, sulle azioni militari della cosiddetta “offensiva contro-sovversiva” sono talmente realistiche che, secondo diverse fonti, pare siano state proiettate anche all’ESMA, anni dopo, durante gli addestramenti dei militari argentini, durante il periodo dei desaparecidos, e dai militari statunitensi.
Circa vent’anni dopo il 1962, il 16 giugno del 1982, a Gijon, la nazionale di calcio algerina batte clamorosamente la due volte campione del mondo Germania Ovest. Nel mondiale spagnolo, nella frazione della Penisola iberica da pochi anni uscita dal franchismo, l’Algeria sorprende tutto il mondo, imponendosi per due a uno sui tedeschi occidentali, la faccia capitalista della Germania divisa in due dai postumi della guerra. La guerra non è finita. E non è finita nemmeno quando gli austriaci, nello stesso girone dei tedeschi e degli algerini, nell’ultima partita, quella decisiva, decidono di accordarsi coi “fratelli di lingua” per far sì che a qualificarsi siano la Germania e l’Austria, a dispetto dell’Algeria che nell’ultima gara batte pure il Cile, per tre a due.
L’unico risultato buono per le sponde francofone è l’uno a zero per i tedeschi. E uno a zero è. Austriaci e tedeschi passano il girone e gli algerini sono costretti a salutare il mondiale nonostante ben due vittorie nel raggruppamento. Germania e Austria ricostituiscono per novanta minuti l’asse di vecchia e inquietante memoria e aprono le porte alla qualificazione del dizionario tedesco, mentre quello arabo, a malincuore, deve tornarsene tra le mura altissime dei suoi inneschi poetici e dei suoi misteri. Ancora una volta il calcio ha ribadito la regola per la quale la simpatia soccombe all’antipatia, e la guerra non è finita.
Nell’Algeria che le ha suonate di santa ragione ai titolati tedeschi giocano Madjer, Fergani, Merzekane, Assad e Zidane, padre di Zinedine, l’algerino che un paio di decenni dopo incanterà il mondo come pochi calciatori sono riusciti a fare nella storia del futbol. Assad e compagni nella “Battaglia di Algeri” ci sono nati. Il dna calcistico della formazione nordafricana affonda le sue origini dentro il cuore pulsante della resistenza alla dominazione. Neppure il calcio ha potuto sottrarsi. Già all’inizio del ‘900 i francesi portano il pallone in Algeria, dove nel 1921 nasce Mouloudia Chailla, il primo club algerino, al quale seguiranno la fondazione di altre squadre e di altre leghe regionali, allargando l’espansione a Marocco e a Tunisia. L’Algeria è destinata a diventare colonia francese anche per il football. Prima, durante e dopo la dominazione le regioni settentrionali forniscono ai francesi fior di campioni, alcuni destinati a fare la fortuna di molti club europei. Ancora oggi basta dare un’occhiata ai campionati principali del vecchio continente per notare la presenza di ottimi calciatori algerini, anche tra quelli naturalizzati.
Nel 1958 Mekloufi, grande calciatore algerino, quattro volte campione di Francia con il Sant’Etienne, parte per l’Africa del nord, fermandosi a Tunisi, per riunire altri calciatori nella rappresentativa calcistica del Fronte Nazionale di Liberazione. La nazionale “alternativa” algerina diventa un altro simbolo di lotta. La resistenza ha una bandiera in più. La guerra non è finita. Dal 1954 al 1962 in Algeria succede di tutto. Lo scontro tra le truppe francesi e quelle del Fronte della Liberazione sono aspri e cruenti. I francesi si ispirano alle tecniche di guerra “contro-sovversiva”, sviluppate durante la rovinosa missione di guerra in Indocina. Per la Francia diventa indispensabile coinvolgere nel conflitto anche le popolazioni civili, ma le vittime innocenti si rivoltano contro le stesse strategie francesi, sempre più nell’occhio del ciclone e affaticate dalla gloriosa resistenza algerina. La decolonizzazione è inevitabile, e il 5 luglio del ’62 l’Africa del nord ha una colonia in meno. Droga, prostituzione, torture, guerriglia urbana, polemiche tra intellettuali di grande prestigio, trattative politiche e movimenti mediatici, sono gli ingredienti di un’ostilità che è figlia di un’ostilità ancora più grande, di quella guerra che non è finita.
Gli anni passano, ma il senso dell'umorismo del caso no. Nella partita decisiva per le qualificazioni ai quarti di finale dei mondiali brasiliani del 2014, l’Algeria, dopo essersi qualificata contro ogni pronostico all’interno del suo girone, affronta proprio la Germania, che stavolta non è più ovest, ma “solo” Germania. Il muro è caduto da un pezzo, le germanie si sono unite, l’est europeo è completamente cambiato rispetto a quello di Spagna ’82 ed è cambiata, almeno in apparenza, pure l’Africa. Ma la guerra non è finita. Gli algerini perdono contro la Germania per due a uno, dopo i tempi supplementari, e devono rinunciare al sogno di un’altra storica qualificazione. La Germania, da sconfitta o da vittoriosa, in qualche modo per gli algerini ha sempre un sapore amaro. Però gli uomini in maglia verde vendono cara la pelle, come i loro padri del 1982, come la rappresentativa calcistica del Fronte di Liberazione, dentro un tempo dove la guerra non è finita.
Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka