La notte di passione, fortunatamente, è passata.

Le prossime, probabilmente, saranno quelle dei lunghi coltelli. 

Avessi scritto queste riflessioni ieri sera, probabilmente, sarebbero state uguali, nella loro risolutezza, senso primario e compiutezza, ma anche molto, inutilmente, esacerbate dalla frustrazione. E per quanto - soprattutto nei momenti peggiori - l'attesa attenui le passioni mediocri e alimenti quelle più viscerali, scegliere di procrastinarle è servito ad elaborare.

Per quanto inutile possa apparire. 

La premessa, a tal proposito, è d'obbligo.

Siamo e saremo sempre e comunque grati a Roberto Mancini, al suo staff, e a questi ragazzi, per quanto ci hanno fatto vivere, dall'inizio di questo adorabile ciclo azzurro, sino alla notte di Wembley.

Io stesso ero qui, in questo spazio virtuale, a rendicontare voi lettori non tanto di quella partita, quanto, piuttosto, di quella fiumara strabordante di tripudio e beatitudine che ci squarciava il petto e si riversava nelle piazze, sotto forma di attesissima festa popolare. E nulla, di sicuro, riuscirà a farmi rinnegare quelle parole, quelle emozioni, quelle convinzioni.

Ciò che Mancini e questi ragazzi hanno messo in opera, tra il 2018 e il 2021 ha un valore inestimabile: tanto per il movimento azzurro, quanto per noi, tifosi e addetti ai lavori, che di esso ci nutriamo. Ma gratitudine e riconoscenza, per quanto erroneamente possano essere intesi come sinonimi, in realtà non lo sono.  

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Non ambisco ad avere i mezzi dialettici e cognitivi per spiegarvene il motivo.

Per questo mi affido a chi, certo più del sottoscritto, può rendere l'idea del perché la differenza, per quanto sottile, sia profonda e - ahinoi - sostanziale. E, purtroppo, letale.

Gratitudine e riconoscenza possono sembrare la stessa cosa, ma di fatto non lo sono: la prima è un sentimento, la seconda è la volontà di ricambiare materialmente ciò che ti è stato dato. Il sentimento della gratitudine aiuta a crescere e ci migliora, la riconoscenza è la sua estensione, un’azione correlata.

La differenza sta tutta qui.

Roberto è stato non solo grato, ma anche riconoscente ad un gruppo di cui, da grande uomo, e grande uomo di calcio qual è, era pienamente consapevole dei limiti mostrati, da fine Europeo in poi.

Non servivano certo le sanguinolenti opinioni di noi, semplici osservatori e appassionati, per realizzare che, iniziando da Donnarumma, e arrivando sino a Immobile e Insigne, questa squadra era intrinsecamente diverso da quello della scorsa estate.

E ritengo addirittura superfluo elencarne i motivi.

Ma, come dicono quelli bravi, la gratitudine è un sentimento. La riconoscenza un'azione a esso correlata.

Un riflesso quasi condizionato, che ha portato il CT a confermare in lungo e in largo, nonostante risultati imparagonabili a quelli del triennio precedenti e prestazioni che definire mediocri sarebbe un eufemismo, quel modulo. Quegli interpreti. Quei ragazzi. I suoi ragazzi. I nostri ragazzi.

Anche nella notte del dentro o fuori. Colpevolmente. 

Perché così come la sua esperienza in Nazionale nacque e si fondò sulle ali dell'entusiasmo, del rinnovamento e della fiducia, anche la transizione dal suo primo al secondo triennio avrebbe dovuto essere alimentata da tali, sferzanti, fondamenta. Ma il sentimento ha prevalso sulla persuasione, come già accadde, in passato, anche a Lippi e a Bearzot.

Con risultati, sciaguratamente, anche meno drammatici di quello che abbiamo incamerato, tutti, ieri sera.

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Poteva essere Balotelli, e non Joao Pedro, a rappresentare la scheggia impazzita da utilizzare a fine partita, in caso di emergenza? Doveva essere Raspadori a sostituire Insigne, ormai palesemente fuori condizione - atletica e mentale - ormai dal momento della sua firma col Toronto? Si potevano rischiare un pur acciaccato Scamacca, o il certo non portentoso Belotti, per rimpiazzare un Ciro Immobile che a 32 anni ha dimostrato, forse anche a sé stesso, di non saper essere decisivo in Nazionale così come nella Lazio? 

Si, forse, probabilmente. 

Ma le colpe, dopo le prestazioni inscenate al Barbera, da parte di tutti, sono evidentemente omogenee e non riconducibili al singolo. E una delle regole non scritte del calcio, e nella fattispecie dello spogliatoio, recita testualmente che, questi casi, il capo espiatorio, inevitabilmente, deve essere l'allenatore.

Cosa puntualmente accaduta, a fine partita, quando Roberto ha fatto un sanissimo e puntuale mea culpa. 

I nostri giocatori sono bravissimi. Quindi non è colpa loro o del presidente, il primo responsabile sono io. Quando si perde il primo responsabile è l'allenatore.

Ora, forse, sarà lui a fare un passo indietro. Poi la palla passerà alla Federazione, che a sua volta dovrà scegliere se essere solo grata, o anche riconoscente, al tecnico, e all'uomo, capace di ridare senso e vitalità - lo ribadisco, e col cuore - all'intero pallone tricolore

La gratitudine la porterà ad abbracciare - non solo metaforicamente - Mancini, a dargli un altro posto d'onore nella Hall of fame del nostro calcio, e, magari, anche a chiedergli di rimanere, con un altro ruolo. La riconoscenza, invece, la porterà a respingere le potenziali dimissioni, e a chiedergli di restare, e di riprovarci.

Nonostante i prossimi Europei siano solo tra due anni, e i prossimi Mondiali...boh. Faccio fatica anche a scriverlo.

A prescindere da questo, poi toccherà a lui, a Roberto. Colpevole di essersi fidato, sin troppo, dei suoi sentimenti, e di averli tramutati in azioni. In scelte. Sbagliate. 

Ma che questa seconda, cruenta, Waterloo, non venga ignobilmente scaricata solo su di lui. L'errore più grande, da parte sua o del suo erede, sarebbe quella di affidarsi a oltranza, e scientemente, a tutti coloro che, dopo averci portato in cima all'Europa, ci hanno collocato dietro a Svizzera e Macedonia del Nord. 

E non date retta ai soloni del pallone, e agli opinionisti da bar, che rilanciano l'ormai ridicolo adagio del "rinnovamento del calcio", degli "stranieri che non lasciano spazio ai nostri ragazzi" e "ai giovani che non vengono messi in condizione di giocare".

Personalmente seguo il calcio da 30 anni, e professionalmente da 15, e non ricordo una sola débacle internazionale, che sia relativa a club o Nazionali nostrane, che non abbia portato gli ignavi ad affidarsi a questo stantìo adagio. Buono per ogni epoca e occasione.

Ma certo non per quella in corso, considerato che proprio Mancini è stato inoppugnabilmente il CT che, in era recente, più in assoluto ha investito sui nostri ragazzi e cambiato la mentalità, del singolo e di squadra. Gli stranieri, è vero, in Serie A continuano ad aumentare (circa l'1% ogni anno: ormai abbiamo superato anche il rapporto 4:6), ma i nostri giovani, soprattutto quelli bravi, continuano a venir fuori. Non avrebbe senso non dirlo, considerato che ieri, anche in campo, sono scesi due 2000, due '99, un '97; che un altro '97, Chiesa, non ha giocato solo perché infortunato, e che altri due '99, Scamacca e Zaniolo, sono andati in tribuna per problemi di condizione. 

L'Italia di Berlino 2006, per gli smemorati, era composta da soli 28/9enni e over 30 (al netto di De Rossi, che entrò nella ripresa).

L'adagio, in definitiva, tenetevelo stretto e ricicciatelo fuori in altre occasioni.

Vi sarà utile per tener banco e farvi assecondare dagli astanti. 

Nel frattempo, ponetevi piuttosto l'ultimo quesito: se essere solo grati, o anche riconoscenti, a questa Italia. Leggetevi dentro, scavatevi nell'anima.

Provate a fare come Roberto, provate a tracciare i labili (e flebili) confini che separano le due cose. Giudicatelo pure, se vi farà star meglio.

Ma chiedetevi, in tutta sincerità, e rispondetevi, rigorosamente non in pubblico: avreste commesso anche voi lo stesso errore?

Io l'ho fatto.

Ma non ho il coraggio di ammettere la risposta.