"Quando i bianchi combattono gli indiani e vincono, questa è considerata una grande vittoria. Ma se sono i bianchi ad essere sconfitti, allora la sconfitta viene chiamata massacro".

Sostituite "bianchi" con "bianconeri", "indiani" con "altri", e riscriverete il leitmotif dell'ultimo quadriennio del calcio italiano. 

Pronunciati echi indiani, evidentemente, risuonano solenni nell'aforisma di cui sopra, che per inciso venne proferito da Cheeseekau, detto Chiksika, fratello maggiore di Tecumseh e capo della tribù Shawnee che, all'epoca, abitò l'Ohio, il Kentucky e la Pennsylvania. Fratelli minori, per intenderci, degli Apache dell'Arizona e del Nuovo Messico. E forse, in minor misura, anche di colui che, oggi, è l'Apache per eccellenza: Carlitos Tevez. Cominciarono a dargli questo roboante nomignolo fin da piccolo, quando i luoghi ed i modi sono socialmente preponderanti anche rispetto al cognome: e fu così che il suo barrio di nascita - Ejército de los Andes, anche detto Fuerte Apache, dal film con Paul Newman Fort Apache the Bronx - divenne anche il modo in cui gli altri iniziarono a chiamarlo.

Oggi Tevez è il degno erede del 10 che gioca in India ma non è indiano, ed i bianconeri continuano imperterriti a perseguire il cammino della vittoria senza paura degli eventuali "massacri" che una sconfitta può arrecare. Il tutto, a prescindere da chi sieda in panchina: anche perché in campo continua ad andare gente come Buffon, Tevez e Pogba, ed ogni avversario finisce per cadere sotto i colpi dei capoclassifica. Che, peraltro, godono sinora d'un ruolino di marcia assolutamente scientifico:

30.08   A       Chievo-Juventus      0-1

13.09   A       Juventus-Udinese    2-0

16.09   ChL   Juventus-Malmoe    2-0

20.09   A       Milan-Juventus        0-1

 

Sei gol fatti, nessuno subito e, soprattutto, rischi concreti pari a zero. Neanche a San Siro, contro un Milan che appare sì rigenerato dalla cura Inzaghi ma che continua a lamentare l'assenza di leader in difesa e centrocampo in grado di opporsi efficacemente ad avversari più o meno prestigiosi: i Poli, Zapata ed Abate che restano sostanzialmente a guardare in occasione della penetrazione centrale dell'argentino, ieri sera, sono lo specchio opaco ed incrostato d'una squadra che potrà far bene solo quando i suoi attaccanti saranno davvero, da davvero in vena. Tanto da compensare le gravissime lacune dei compagni alla loro spalle, come già accadde in quel di Parma.

Dall'altra parte, come previsto, segue la Roma, che proprio come i piemontesi sinora non ha fallito un colpo:

30.08    A       Roma-Fiorentina     2-0

13.09    A       Empoli-Roma          0-1

17.09    ChL   Roma-CSKA           5-1

21.09    A       Roma-Cagliari        2-0

 

Ben undici gol fatti ed uno solo subito, a testimonianza d'un equilibrio altrettanto produttivo ma anche d'un baricentro in campo leggermente più alto, tipico delle squadre di Garcia, e soprattutto viscerale per chi può vantare in rosa volanti come Iturbe, Florenzi e Gervinho. 

Forse sta tutta qui la differenza tra Roma e Juventus. Una fa maggiore affidamento, vista la varietà sia numerica che tecnica, sul proprio attacco, delegando le responsabilità alle ripartenze, alle manovre orchestrate ed alle giocate in velocità, producendo un gioco degli esterni bassi che a fatica riesce a compensare il lavoro dei centrali difensivi che però a loro volta, visto che il fulcro delle partite è particolarmente lontano dalla loro area di competenza, stentano ad essere realmente impegnati. L'altra gode d'un patrimonio di intensità, concretezza e convinzione nei propri mezzi tale che la rende dominus di qualsiasi partita - quantomeno in Serie A -, una fase difensiva praticamente ineccepibile ed il portiere migliore. E, soprattutto, può contare su colui che pare esser davvero l'unico top-player del campionato. 

Perché se Higuain si spegne insieme al Napoli del sempre più imprevedibile Benitez, Immobile viene ceduto all'estero, Cuadrado fa fatica a ritrovare la condizione della prima metà del 2014, e Rossi continua a rompersi, è proprio lui, l'Apache dell'Ejército de los Andes a rappresentare il vero surplus di tecnica e gol che c'è rimasto.

A parte quello di Marchisio contro i friulani, e l'autogol di Biraghi, ogni altra marcatura per Allegri porta in dote il suo nome. Un materialismo vorace, sottoporta, che tra l'altro questo 30enne nomade quasi quanto gli Shawnee di Chiksika non aveva mai palesato in carriera.

 

Avere un Tevez così in squadra, però, è anche una responsabilità. Perchè quello che la storia recente (fino a prova contraria) ha tracciato tra lui ed i vari Morata, Llorente e Giovinco è un solco abbastanza profondo, e che certo non è quello che separa tra di loro Gervinho, Totti, Destro, Iturbe, Florenzi e Ljajic, che sembrano poter turnare con maggiore fluidità. 

E allora, come finirà? Difficile da prevedere, ad oggi. Certo, il primo scontro tra le due del 5 ottobre ci sarà d'aiuto: in quell'occasione, peraltro, ci saranno Iturbe, Vidal e Morata al meglio, Chiellini, Pirlo e mancheranno i soli Astori e Strootman. Sarà un banco di prova inestimabile per entrambe. E ci sarà anche lui, Carlos Tevez. Uno che, come amava ripetere non Geronimo né Toro seduto ma Sir Alex Ferguson, appartiene alla straordinaria categoria dei calciatori che, si, rendono il lavoro più difficile, ma anche le squadre dannatamente più forti.

 

P.S.: Sempre a proposito di chi lo giudicava un piantagrane alla Balotelli, semi-obeso, fuori forma e poco decisivo, continua a valere una delle tante regole etiche dei guerrieri Apache suoi simili.

"Grande Spirito, preservami dal giudicare un uomo non prima di aver percorso un miglio nei suoi mocassini". O nei suoi scarpini.

 

Alfredo De Vuono