Non sappiamo se il sogno può davvero tramutarsi in realtà, ma frattanto i primi due tasselli sono stati messi al loro posto. Un paio di mattoncini apparentemente banali, come inevitabilmente può accadere quando vinci lo scudetto per 5 volte consecutive ed inizi il sesto campionato di fila da iper-favorita, ma mai così funzionale al roseo proseguo della stagione. Perché vincere, la storia lo conferma, aiuta e insegna a vincere. Non è un caso se la Juventus probabilmente più forte dell'ultimo trentennio sia composta per buonissima parte di calciatori fatti e finiti, arrivati quasi ai 30 (o abbondantemente varcati) con un bagaglio di esperienze sostanzialmente smisurato. Fatto di riflettori, ansie ed insormontabili ostacoli da superare, superati regolarmente con successo, o comunque affrontati con la tenacia di chi può, vuole, e sa. Il cortocircuito emozionale e sportivo è servito: una banda di primedonne, vero. Però tutte, a proprio modo, unite nel perseguire l'obiettivo principe per cui questa squadra è stata costruita: vincere. Se possibile, tutto. Una fame vorace che peraltro si è amplificata in inverno, quando il primo traguardo stagionale, la SuperCoppa, è svanito per mano di una squadra decisamente inferiore, sotto tutti i punti di vista. Ma perdere fa parte del gioco, e presumibilmente l'eccezione che conferma la regola di questa straordinaria annata è già stata consumata. In attesa di capire se questa teoria si applicherà anche all'ultima delle finali che attendono ora Higuain e compagni, ciò che si doveva fare - ovvero conferma Scudetto e Coppa Italia, dentro i confini nazionali - è stato fatto. La Juventus, unica nella storia pallonara italiana, conquista - dominando - il sesto campionato consecutivo, e si auto-consegna ai posteri come modello elegante e forbito di crescita sportiva e societaria. Una sinusoide di risultati che ha iniziato la sua fase crescente esattamente dieci anni fa, quando di questi tempi i ragazzi di Deschamps (e Corradini, non dimentichiamolo) conquistavano il proprio fisiologico ritorno in A e pianificavano l'immediato futuro puntando su sé stessi, e le proprie potenzialità. Il fatto stesso che di quel gruppo ben tre ancora oggi siano fulcri inamovibili - Chiellini, Marchisio e Buffon - ed uno sia un elemento cardinale della dirigenza - Nedved - è altresì significativo: questa squadra in due lustri non s'è mai stravolta né fatta stravolgere. Ha sempre, coerentemente, cercato di migliorarsi seguendo una traccia netta, regolare, cercando di rimanere sempre simile a sé stessa ed ai suoi principi. Nel bene e nel male.

Sul mercato ha progressivamente alzato il tiro, senza però mai cambiare l'idea di fondo che storicamente s'è portata dietro. Acquistare poco, bene, possibilmente sul mercato italiano ed all'estero solo nei rari casi in cui ne valesse davvero la pena. Due lustri: tanto deve trascorrere, per quelli bravi-bravi, dalla cadetteria all'Olimpo internazionale. Un percorso che, per inciso, hanno già - seppur con minore linearità - intrapreso Roma e Napoli, e che s'apprestano a intraprendere, se i cinesi vorranno e lo sapranno fare, Milan e Inter. Tutte squadre che oggi in qualche misura, nonostante le metodiche ed ormai, sinceramente, trite e ritrite asperità, devono anche ringraziare la Juventus. Perché oltre a tracciare la strada, e creare un modello di riferimento, probabilmente è servita e servirà anche a farle crescere. Per chi non se ne fosse accorto, sia la Roma che il Napoli, difatti, fanno una fase offensiva già oggi estremamente migliore rispetto a quella della Juventus. La differenza sostanziale, in tal senso, la fanno gli esterni: Callejon, Insigne, Salah ed El Shaarawy (metteteci Perotti e Nainggolan, o Hamsik, se volete) sono molto più prolifici rispetto ai pari ruolo bianconeri, ma a differenza di Cuadrado, Dani Alves e Mandzukic operano una fase difensiva molto meno efficace. Se a questo si somma il fatto che la linea Buffon-Barzagli-Bonucci-Chiellini è molto più rodata ed affidabile delle altre, da qui si desume l'analitico e non sterile calcolo matematico che vede Roma e Napoli aver sommato circa una ventina di gol subiti in più, rispetto alla Signora. Il gap, insomma, non lo dicono solo i freddi numeri, ma anche l'approccio tattico e mentale, non è mai stato così esile.

La Juventus continua a subire meno gol di tutte: qui si decide lo scudetto (elaborazione dati Fantagazzetta)

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Avere una capofila di tale livello, ovviamente, non può non costringere tutte le proprie inseguitrici ad alzare il tiro, minimizzare gli errori, investire di più e rendersi sempre, progressivamente, meno perfettibili. L'alternativa, d'altronde, è alzare bandiera bianca e soccombere. Cosa che, inevitabilmente, per adesso - e per fortuna - nessuno ha fatto. Anzi.

Questa squadra, che oggi conclude con lo Scudetto (il 33°, senza dubbio, estremismi e deviazioni dal tifo a parte) il proprio trionfante percorso tricolore, festeggia con la moderazione di chi sa di dover fare ben altro, per auto-incensarsi in totale libertà. Ed in buona sostanza sta facendo del bene a tutto il movimento calcistico italiano. Un po' come accadde, a cavallo tra gli '80 e i '90, col grande Milan, che faceva da battistrada, vincendo a livello mondiali, per tutte le altre, che crescevano a dismisura e riuscivano ad imporsi anche nelle manifestazioni inferiori (o alternative, come UEFA e Coppa Coppe).

No, non è una provocazione, ma una constatazione, seppur poco analitica. Sia sulla questione relativa alla ciclicità decennale, sia in merito all'innalzamento del livello medio di un movimento come il nostro calcio. E allora, nonostante si farà fatica ad ammetterlo, grazie Juventus. Perché, parafrasando una celebre definizione di Roberto Gervaso, è una delle poche italiane esportabili, e presentabili, al di là delle Alpi, della Manica, dell'Atlantico. La conoscono tutti e tutti – quelli che contano – conoscono lei. Gode d'infiniti privilegi ma, mi dicono, non ne abusa. Nega d'amare il potere, forse solo perché ne ha tanto, e nessuno può insidiarglielo. Comunque ne fa un uso discreto, come si conviene a un monarca, sul cui impero non tramonta mai il sole. Parole che, in origine, quel grande giornalista non riferì alla squadra, ma al suo più grande Presidente. Perché, al singolare maschile, quella frase era rivolta a Gianni Agnelli. Certo non un caso. Almeno sembrerebbe.