Quand'ero poco più che un ragazzino, le mie primissime parole fatte di bit erano (quasi) interamente dedicate ad una passione che ancora coltivo, seppur dedicandogli - a parità di piacere provato - sempre minor tempo, per cause di forza maggiore: quella per il cinema. Un giorno, per un quotidiano amatoriale locale, mi trovai alle prese con una delle recensioni più difficili da scrivere. Quella d'un film non bello, né brutto, né mediocre: ma d'un capolavoro. Era la recensione de 'Le Iene' di Quentin Tarantino. Impresa ardua. Perché è molto più facile scrivere male d'un ottimo film che viceversa. Ecco perché decisi di partire dal finale: da quella schizofrenica e girovagante scena d'una manciata di minuti in cui tutto e nulla si delinea, nel magma convulso e spettacolare dell'indeterminatezza. Quella mia recensione d'ormai quasi 15 anni fa, su per giù, cominciava così: dall'analisi del finale.
"Silenzi. Assordanti silenzi, rotti esclusivamente e sporadicamente da parole e rumori: ma solo se veramente necessari. Musica incalzante, ma solo se in alternativa a quelle (poche) parole, ed a quei rumori. Gesti: minimali, contingenti. Sguardi: tantissimi, da intrecciare con violenta ma sapiente sagacia. Occhi sgranati, muscoli tesi, regia nervosa che deve abusare di primissimi piani e dettagli apparentemente trascurabili. Spazi: o apertissimi o chiusi, niente vie di mezzo. Minuti. Ci vuole tempo per far crescere la tensione. Un crescendo di passione che deve incollare alla sedia, in attesa del culmine dell'attimo, che deve esser talmente breve da apparire secondario rispetto al crescendo, e talmente lungo da (rac)chiudere un'ora e mezza in un frammento di secondo": questa la mia descrizione del cosiddetto 'stallo alla messicana' che conclude il film, ovvero d'uno dei cliché cinematografici più adorabili (ed abusati) degli anni d'oro del cinema italiano.
Si identifica come tale una situazione nella quale più personaggi (generalmente tre) si tengono sotto tiro a vicenda con delle armi, in modo che nessuno possa attaccare un avversario senza essere a propria volta attaccato. L'origine dell'espressione è, tuttora, assai ambigua, ma quelli più bravi del sottoscritto dicono sia legata alla difficile e paradossale condizione socio-economica che si visse in Messico, durante il XIX° secolo. Il cinema, a tutti i livelli, lo ha proposto in mille e più varianti, e prima d'un Quentin Tarantino che ne ha sempre, e con godereccia voglia, fatto uso, fu il primo, e celeberrimo, 'triello' di Sergio Leone ne 'Il buono, il brutto e il cattivo' ad anticipare i tempi, quasi 50 anni fa, ed a regalarci il primo, vero, stallo alla messicana della storia.
Un angustiante magma di impossibile sviluppo delle cose - seppur destinato a finire, prima o poi - dovuto al forzato immobilismo cui sono costretti i protagonisti. Che non necessariamente debbono essere quelli del cinema: anzi. Provate a dare un occhio, magari un po' più attento del solito, all'attuale situazione della politica, e poi anche a quella del calcio, sempre italiano, e vi renderete conto di quanto e come, di stallo alla messicana, si possa discutere. Il governo non si fa perché Grillo tiene le pistole puntate su Bersani, che a sua volta guarda di traverso Berlusconi, che dal canto suo, pur non potendo guardare (male) nessuno per motivi di uveite, tiene sotto controllo Bersani stesso ma anche Grillo.
Nel frattempo, però, qualcuno esulta, e forse a sproposito: è il centrosinistra, che eleggendo i Presidenti delle Camere crede d'aver sparato per primo, quando invece il crescendo dello stallo è ancora agli albori, e la puzza di polvere da sparo bruciata è ancora solo un'ipotesi. Ma, così come nello stallo alla messicana degli spaghetti western, anche in quello della politica italiota c'è un finale già scritto, e che non spoileriamo in questa sede solo per lasciar spazio a stalli di ben altro ambito. Tipo quello pallonaro. Perché il campionato volge al termine, e con le giornate rimanenti che si contano sulle dita di due mani, anche dopo questo fine settimana poco o nulla è cambiato.
Partiamo dalle retrovie, dove se Pescara e Palermo già da qualche settimana pensano a come ripartire dopo la retrocessione, ci sono due squadre, Siena e Genoa, che sinora si sono inseguite (e susseguite) senza colpo ferire, e che hanno vissuto anche questo turno in silente e fremente attesa - per l'appunto, lo stallo - del duello (all'arma bianca? Probabile, la paura fa sempre grossi scherzi) del prossimo turno, quello Pasquale. Detto inter nos, forse è proprio il Siena, tra le due, che meriterebbe la permanenza in Serie A. Non fosse altro per i tanti, forse troppi, singoli talenti che il Genoa è riuscito a depauperare in questa stagione: Vargas, Frey, Immobile, Rigoni, Cassani, Kucka, Antonelli e Borriello sono solo alcuni dei tanti giocatori presenti in rosa, e che provengono da un'estrazione calcistica ben più pregiata di quella che li vede attualmente immersi nella lotta-salvezza punto a punto, ed è sinceramente un peccato veder giocatori così offrire un contributo così striminzito alla causa. A questo punto ben venga (premiato) il mai domo orgoglio dei vari Emeghara, Rubin, Rosina, Sestu, Angelo e Pegolo, che pur essendo quasi tutti di tasso tecnico estremamente inferiore rispetto ai rossoblù, stanno lottando con antico furore. Oddio, dopo aver ritrovato la Serie A i suoi quattro, storici, derby, perderne uno sarebbe quantomeno un dispiacere per il blasone del nostro già sufficientemente poco entusiasmante campionato. Ma sarà quel che sarà: e dopo che le due contendenti si saranno trovate faccia a faccia, il 30 marzo prossimo, ne sapremo di più. Nel frattempo la musica sale, e gli sguardi si incrociano trasmettendo ansia ed accrescendo la tensione. Proprio come nello stallo messicano che si vive agli antipodi della classifica, dove tutto tace o, per meglio dire, nulla si muove.
La Juve continua a tenere il Napoli ad una distanza tale da far fare sogni tranquilli anche al Bale - non Gareth, ma Christian - de 'L'uomo senza sonno', portandosi via i tre punti pure dal Dall'Ara. Non senza polemiche, ovviamente: perché come dicevamo nella headline del pezzo, e poi, riferendoci ai ridolini di Bersani, che crede di poter rompere l'insormontabile stand-by istituzionale andando ad eleggere due presidenti, anche qui lo stallo messicano viene corrotto dai ridolini di Antonio Conte, che a detta di Pioli vince meritamente ma senza stile, rinfacciando al collega mancato rispetto ed un'evitabile, perché eccessiva, esultanza. Bene, parliamoci chiaro: che la Juve sia la più forte lo dice la classifica dell'anno scorso, quella di quest'anno, ed, ultimo ma non per minore importanza, anche il traguardo europeo raggiunto, dopo l'esclusione del Milan.
Mi si conceda una piccola digressione, legata alla debàcle rossonera del Camp Nou: avesse la dirigenza, di concerto con l'allenatore, approntato una rivoluzione meno drastica, ma più progressiva, di quella attuata in estate, forse il Milan avrebbe potuto regger l'onda d'urto di Messi & soci al Camp Nou. Perché sarà anche vero che è coi giovani che si fanno le imprese, ma sono sempre i vecchi a fare i miracoli. Ed un Inzaghi o un Gattuso sarebbero bastati. Ma, sempre come dicono quelli bravi, con i se e con i ma non si va da nessuna parte. Ma neanche con Niang e Flamini.
Torniamo alla Juve: dicevamo, la più forte. E, per questo, inevitabilmente anche la più antipatica. Con Antonio Conte - uomo col bianconero tatuato su un cuore tipicamente meridionale, e per questo fumantino - suo condottiero, in testa, a far da non certo oxfordiano capopopolo, ed a catturarsi attenzioni, critiche, rimbrotti ed antipatie. E' normale, normalissimo: soprattutto in un Paese come il nostro, in cui la moda principale è il "con o contro", senza mezze misure. E se prima dello stallo messicano della politica il duello era tra Berlusconiani e anti-Berlusconiani, e dopo lo stallo è diventato tra Grillini ed anti-Grillini, nel calcio di tutte le epoche il vis-a-vis è da sempre tra Juventini e anti-Juventini. Dunque, nessuna novità. Lo stallo è servito, e con esso anche l'odio - calcistico, sia ben chiaro - tra fazioni (e faziosi). Cui lo scherno post-vittoria appartiene.
Così come l'ansia crescente, modello duello rusticano, per l'ultimo posto che vale la Champions. Anche se uno stallo alla messicana, lo dicevamo già, prevede già intrinsecamente che lo spettatore possa subodorarne gli esiti. Con la Juve, difatti, già pronta a stappare lo spumante, solo altre due festeggeranno per aver raggiunto la piazza che valida l'accesso alla Champions, e con esso una buona manciata di milioni. Le altre, Lazio, Inter, Catania, Roma, Fiorentina, Napoli e Milan che siano, lotteranno poi punto a punto per un posto in Europa League. Ma solo e sempre per i milioni che anch'essa si porta in dote, non tanto per vincerla. Perché poi tanto, nella fu Coppa UEFA, si sa, giocano sempre le riserve. L'importante è arrivarci, e magari giocare alla morte solo le pochissime partite che i tifosi vogliono che si giochino allo spasmo, per poter 'uscire a testa alta', come a molti piace narrare. Quando in realtà i traguardi che si potrebbero raggiungere sono ben altri.
Ma, ripeto, non c'è da meravigliarsi. Gli stalli alla messicana funzionano così. Con tanti occhi che s'intersecano, sino a denudarsi a vicenda, e la musica che incalza. E con gli spettatori attoniti, ed ammutoliti quanto i protagonisti, in attesa di veder volare le prime cartucce, e cadere i primi cadaveri. L'evolversi del calcio però, come quello della politica, peraltro, è come la sceneggiatura d'un buon film: già scritta, a meno di soprese dell'ultimo minuto, giocate geniali e colpi di scena.
E dunque a noi spettatori, tifosi ed elettori, non tocca altro che starcene buoni buoni a goderci l'attesa. Fremente, irriverente, ansiogena. Praticamente più bella e godibile di quei brevi, ma attesissimi attimi che poi non fanno altro che traghettarti ai titoli di coda. Proprio come nel migliore degli stalli alla messicana.
Alfredo De Vuono