Se n'è andato anche questo. E per il prossimo servirà attendere ancora una vita, lunga 4 anni. Anzi, 4 e mezzo, visto che si giocherà in inverno. Del Mondiale 2018 ricorderemo relativamente poco: è stato - e non ci si taccia di essere come la volpe nel caso dell'uva - scarsamente combattuto, ricco di stelle ma avaro di giocate da scolpire nella mente e nel cuore (nonostante quanto ripetano gli spot TV). 

Un po' come quello 2014, in verità. Ma resta un Mondiale di calcio, e in quanto tale non può non essere comunque memorabile, a modo suo: anche se noi non ci siamo.

Il dramma relativo alla nostra mancata partecipazione può addirittura aver attenuato una certa diffidenza e superbia nei confronti delle altre squadre, degli altri partecipanti, delle altre Nazioni. E l'ha tramutata in fame, curiosità, attenzione. Insomma, scoperta: quella che un mondo più o meno felicemente globalizzato, anche a livello sportivo, dovrebbe tenere ogni giorno come sua priorità. Detto questo, la prima, dovuta, considerazione, che in ogni caso è marginale rispetto a questa analisi: hanno vinto i migliori? Probabilmente sì. 

E questo è già un punto a favore di una kermesse sostanzialmente equilibrata, che ad un certo punto, come spesso accade, ha assunto i contorni dell'Europeo allargato. E, quando la formula a eliminazione diretta ha aperto le porte della finale alla Croazia, il nostro tifo s'è fisiologicamente rivolto verso i ragazzi di Dalic

Non più giovanissimi, ma ricchi di talento, nostalgici tanto quanto basta per provare a fare odiare (sportivamente parlando) tutti quei ragazzini terribili come Mbappé e i suoi simili. 

23 figli di una popolazione microscopica (poco più di 4 milioni) popolazione, rispetto a quella delle superpotenze internazionali. Con un fenomeno, a dirigere le danze: uno dei pochissimi veri numeri 10, non solo per tecnica di base e collocazione tattica, resistito alla rivoluzione calcistica coincisa con la fine del decennio scorso. E poi, per buona parte composta da ragazzi che conosciamo benissimo: nessuna Nazionale, come la Croazia, ha portato in Russia così tanti "italiani" ed ex italiani (praticamente metà squadra, per buonissima parte in campo). 

Dall'altra parte, i nostri vicini-nemici amatissimi, forse più della Germania, che ancora devono completamente espiare le loro "colpe", nei nostri confronti (l'averci fatti fuori, ai rigori, nel '98, e ai supplementari nel 2000, in ambo i casi ingiustamente). Un popolo che pur essendoci prossimo, geograficamente, ci è più che mai distante, antropologicamente, e che viene peraltro da un ventennio che già era stato ben ricco di soddisfazioni. Tutt'altra pasta rispetto alla "piccola" Croazia, che nel 1998 venne fatta fuori, nel suo miglior Mondiale (prima di questo), in semifinale proprio dalla Francia (con Deschamps in campo). Come? Per i più piccoli e i più smemorati, con una doppietta di Lilian Thuram, che in 15 anni in maglia blues ha segnato solo 2 gol. Entrambi in quella partita.

Tanto bastava (e avanzava) per tifare Croazia. Che di fronte però si è trovata una squadra che, seppur più giovane, è già anche più matura, calcisticamente parlando. Il cui miglior calciatore, quel Kylian di cui sopra, oltre che essere il terzo più giovane nella storia ad aver giocato una finale Mondiale, è anche il più giovane in assoluto ad averci fatto gol. Il cui trascinatore, a centrocampo, Pogba, è un riferimento assoluto del calcio internazionale da quando aveva l'età di Mbappé. I cui calci da fermo, malefici come pochi altri, li tira un piccolo Diavolo di nome Griezmann che non a caso da due anni è l'uomo più ambito per il Barcellona. Ed il cui tecnico, Deschamps, era già leader e capitano 20 anni fa, contro l'altra Croazia, quella di Boban e Suker, è una vecchia volpe. 

Per tutto il torneo (e così è stato, anche in finale) ha giocato un calcio sparagnino ma letale, freddo nelle ripartenze ma difensivo come pochi, pur schierando sempre tre attaccanti veri. Ed ha segnato più di tutti giocando proprio questo tipo di calcio, per filosofia ed effetto opposto a quello dei croati, che hanno nel giro-palla ed, in alcuni casi, anche nell'estetica, la propria filosofia, piaccia o meno. Spiace, in ogni caso, per chi come Modric, Perisic e Mandzukic, ci ha messo il cuore e l'anima, sempre. Fa piacere, invece, per una generazione che va dai '91 Kante e Griezmann al '98 Mbappé, passando per il '93 Pogba e pronta a fare la voce grossa, quindi, anche all'Europeo 2020. Prima di fasciarci la testa, in ogni caso, facciamo il punto. Anzi, i punti. Scegliamone 10, e proviamo a portarceli dentro. Non sarà difficile.

#10) I superpoteri di Ronaldo.

Nei suoi primi 180' in Russia, Cristiano sembrava essere in grado di giocarlo e vincerlo da solo, questo torneo, più di quanto accadde due anni fa all'Europeo. Ma i fuoriclasse assoluti possono (e, in alcuni casi, devono) far vincere le singole partite, non le manifestazioni. A maggior ragione se sono di altissimo livello. Lo sa bene il Real Madrid, che intorno a lui ha costruito 10/11esimi di gloria, non semplice contorno. Lo sa bene la Juventus, che non ha costruito la sua rosa 2018/19 intorno a lui, ma s'è limitata - si fa per dire - a porlo al culmine di una torta deliziosa a mò di ciliegina dai tanti carati. L'unico a non saperlo, forse, è proprio lui. Ma non diteglielo.

#9) L'azione-gol a gioco fermo di Panama.

La Repubblica di Panama ha meno abitanti di Roma. Non si pratica, attitudinalmente, il calcio, ma piuttosto la boxe o il baseball. La sua Nazionale non s'era mai qualificata per un Mondiale, e c'è riuscita, nel clamore generale, lo scorso ottobre, grazie ad un gol fantasma surreale, che ha consentito ai ragazzi di Dario Gomez (già CT della Colombia) di arrivare terzi nel girone di qualificazione CONCACAF a spese degli USA, a loro volta suicidatisi per via della sconfitta contro la piccola Nazionale di Trinidad e Tobago. I migliori calciatori panamensi giocano in MLS o in Belgio: hanno perso tutte le partite, ma hanno regalato emozioni uniche ai loro connazionali (e telecronisti) in patria. E, soprattutto, a noi spettatori ha regalato l'epico momento di ignoranza - in senso buono, per carità - in cui ha provato a far gol all'Inghilterra a gioco fermo. Talmente piaciuto, ai rubicondi britannici, che poi ci hanno provato anche loro.

#8) Il rigore parato da El-Hadary a 45 anni.

Mondragon e Milla, due emblemi della storia del calcio non solo per la loro, lunghissima, carriera, erano stati superati già nel momento in cui Cuper s'era affidato a lui, contro l'Arabia. Vero, il suo Egitto era già fuori, ma questo conta poco, se devi raccontare una favola. Quella di un ragazzo resosi conto tardi, molto tardi, che il suo talento era quello di fare il portiere, e che ha raggiunto l'apice della sua carriera a 35 anni, quando venne chiamato dal Sion a fare la riserva prima e il titolare poi. Era già considerato un vecchietto: di lui un certo Drogba non aveva ancora detto "È il miglior avversario che abbia mai affrontato". Da allora sono passati altri 7 anni, e doveva ancora arrivare il momento in cui, all'età in cui tutti i suoi colleghi o sono in "pensione" o su una panchina, riusciva a ipnotizzare dagli 11 metri  culminata nel rigore parato a Fahad Al-Muwallad, uno che ha la metà dei suoi anni. Ah, a proposito di eternità: il vecchio Essam non ha ancora smesso. Ha appena firmato per l'Ismaily, club della prima serie egiziana. Ha lasciato, guarda un po', proprio il campionato arabo.

#7) L'ansia e la paura di Messi.

Le ha messe entrambe in campo, la Pulce. L'ultimo dei fuoriclasse umani, non costruìtisi mediante l'atletismo e il perfezionismo, ha fallito anche l'ultima delle grandi chances che l'Argentina - che nonostante tutto lo ama alla follia: e fa bene - gli poteva concedere. Dopo 4 Mondiali e 4 finali perse, può ritenersi chiuso il suo ciclo albiceleste, fatto quasi solo esclusivamente di rimorsi, lacrime, silenzi. E facce. Soprattutto in Russia, tutte tristi e contrite. Quasi sempre sorrette dalla mano usata come sostegno più emotivo che fisico. Fa bene, Leo, ad aiutarsi. Anche perché, e questo purtroppo lo dicono in pochi, in campo al Mondiale stavolta non l'ha aiutato nessuno. E il suo allenatore è addirittura riuscito a penalizzarlo. In Qatar quasi certamente non ci sarà, ma noi non smettiamo di crederci, e di sperarci. Se El-Hadary ha potuto parare un rigore 45 anni, Messi a 35 potrà ancora fare sognare il suo popolo. O almeno questo è il sogno che auguriamo ad un Paese che, a livello calcistico, è uno dei pochi ad aver sofferto anche più del nostro.

#6) La punizione di Kroos.

Ebbene sì, ricorderò questo gol della Germania forse anche più della sua eliminazione per mano della Corea - perché ognuno, prima o poi, ha la sua. Probabilmente perché è l'esemplificazione plastica di quanto sostenuto da Lineker (che poi ha dovuto correggere il tiro: “Il calcio è un gioco semplice. Ventidue uomini inseguono una palla per 90? e alla fine i tedeschi non vincono più. La versione precedente è confinata alla storia“). Lo schiaffo preso da Low resterà, sì, ma anche quella punizione bella e impossibile a tempo scaduto: perché quando si segna in maniera così determinante il futuro a breve termine di una Nazione non si può non entrare nella storia. Con la propria squadra virtualmente estromessa, a una decina di secondi dalla fine del recupero, e da quella posizione defilatissima, solo quelli con due palle così, metaforicamente fumanti, possono decidere di calciare direttamente in porta dopo un tocco corto. Più che l'esecuzione, magistrale, vale il coraggio. E l'impeto. 

#5) Le lacrime di Gimenez.

La storia di Oscar Tabarez, che non smette di lottare e anzi già pensa alla Coppa America che verrà, ha commosso ma soprattutto fatto riflettere il globo. Un mito, ormai, il tecnico uruguagio, che non è riuscito a trasmettere però la stessa forza d'animo al suo difensore. Un ragazzone di soli 23 anni, ma che già da 5 calca i palcoscenici più ambiti di questo sport in quanto riferimento anche dell'Atletico di Madrid. Contro la Francia, però, questo difensore peraltro universalmente riconosciuto come "duro" è crollato psicologicamente. Mancavano due minuti (più recupero, che in questa manifestazione è sempre stato di almeno 5') alla fine della partita che ha estromesso la celeste: dinanzi a lui, da fermo, Griezmann, e lui, in barriera, a piangere per il sogno infranto. Un segno di debolezza, per molti. Un fremito di umanità, a mio parere. Che "El Maestro" gli saprà insegnare a trasformare in rabbia agonistica. Un esercizio mentale che ha già saputo fare su sé stesso, per respingere la malattia.

#4) I 14 minuti a terra di Neymar.

Prendete un frame qualsiasi, del talento brasiliano a terra, e immortalatelo. Non nelle gif, come ha fatto, giustamente, ogni ironico appassionato mondiale. Ma nella mente. Quanto vi viene facile? E' normale che un calciatore di questo lignaggio, che già oggi è nella storia di questo gioco in quanto più pagato di sempre, debba essere ricordato per il tempo che ha trascorso a terra nelle partite giocate in Russia? Tempo che, per inciso, è stato quantificato in 14 minuti circa, alcuni dei quali - e anche questo va detto - legittimi, visto che per caratteristiche tecniche (e antipatia) O'Ney è uno di quelli a cui i difensori più facilmente rivolgono le proprie attenzioni. Colpa sua e delle sue simulazioni se il Brasile anche stavolta ha disatteso le aspettative? Riduttivo. Piuttosto bisognerebbe pensare a quanto davvero Gabriel Jesus possa risolvere i problemi in attacco e quanto, finalmente, sia necessario un CT europeo. Magari più abile di Tite, Emery e Dunga a insegnare a Neymar come farsi ricordare per altri motivi.

#3) L'orchestra del Belgio.

L'esplosione definitiva di questa generazione, diciamolo, l'aspettavamo tutti. Molti di questi ragazzi, Lukaku, Hazard e De Bruyne su tutti, ci saranno anche nei prossimi appuntamenti, ma nel frattempo il sogno delle furie rosse l'abbiamo visto sfumare davvero per pochissimo. Un peccato, visto che il talento piace a tutti. E i ragazzi di Martinez, che s'era preso il lusso addirittura di non convocare Nainggolan, di talento ne hanno e ne hanno messo in campo davvero tanto. Non può che fare piacere, quindi, che abbiano raggiunto il loro miglior risultato di sempre, e che siano stati anche universalmente applauditi ed apprezzati. Se in futuro questa generazione riuscirà ad affiancare a centrocampisti e attaccanti top anche difensori di pari livello, allora l'escalation potrebbe non essere finita. 

#2) Il requiem del tiqui-taca.

Che, forse, ha avuto il suo punto più alto in coincidenza del quadriennio 2008-2012 (e non solo per le vittorie delle furie rosse), ma anche del momento in cui il calcio mondiale s'è riscoperto non ancora pronto per contenere un'idea di gioco, sviluppata da Guardiola e diffusasi a macchia d'olio in tutto il Paese iberico, semplicemente diversa. Ed, in quanto tale, imprevista ed imprevedibile. Da allora, però, sono arrivate solo batoste, e neanche poco letali, per la Spagna e i suoi fenomeni, incapaci di sostituire tanto Casillas in porta, quanto Xavi in regia. E che, adesso, dovrà fare i conti con un altro ricambio generazionale che potrebbe portar fuori, tutti insieme (seppur gradualmente), anche Iniesta e Silva. Enrique dovrà rifondare un gruppo affondato anche nelle ore, traumatiche, dell'insperato ricambio Lopetegui-Hierro (mai esonero fu più folle), e che deve necessariamente innovarsi anche sotto il profilo strettamente tecnico-tattico. Probabilmente ci riuscirà, Luis, dopo che già si trovò a pianificare un processo simile in blaugrana. Per il momento, però, l'immagine più sterile del fine-corsa di un calcio indimenticabile è rappresentata dallo sterile ma infinito possesso palla contabilizzato contro i padroni di casa. Che, ancora una volta, ha rispedito gli spagnoli a casa già agli ottavi.

#1) Il motorino di Mbappé.

Di lui parleremo per almeno altri 15 anni. Impropriamente lo si paragona a Ronaldo, di cui non ha e non avrà mai la tecnica di base né la fantasia. 

In quanto a velocità, però, il confronto con un non calciatore come Bolt, anche per i numeri che mette in elenco quando sale sul motorino, sono calzanti. Non ne avrà ancora la personalità, ma per quanto mi riguarda il riferimento principale, non solo per la Nazionalità, può essere Henry, che però alla sua età non era così prolifico. Mbappé invece oggi è un ala con lo spirito dell'attaccante e la velocità di un centometrista, che ha ancora notevolissimi margini di miglioramento se, in un futuro non proprio lontanissimo, dovesse cambiare ruolo. Di certo oggi è il figlio prediletto di una Nazione che torna ad essere Campione del Mondo dopo 20 anni: non un tempo eccessivamente lungo, considerato che si parla di Mondiali, ma più di una vita se il riferimento è lui. Che venne concepito poco prima di quel Francia-Croazia 2-1 con doppietta di Thuram e che oggi ne decide un altro, di Francia-Croazia. Come nelle storie più belle. 

Quelle che solo un Mondiale, anche se non proprio il più bello di sempre, sa e deve raccontare.

Kylian Mbappe (getty)

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