Sono lontani i tempi delle cirrosi incastrate tra il coraggio e le paure di Garrincha, di Best e di Socrates. Certe faccende non fanno distinzione, sbriciolando sotto la luna tutta la compassione, dentro il silenzio dei contro patetici solstizi di quelli seduti in disparte. Se a qualcuno di questi va di piangere - forse succede in segreto - taciturni ladri di silenzio appoggiati all’angolo della strada alle quattro del mattino, quando neanche l’ultimo apprendista dei netturbini in sciopero s’accorge della loro presenza.
Se pure passasse una volante, varrebbe più la voglia del secondo o del terzo caffè, per tenersi svegli fino alla fine del turno.
E l’alba li confonde, questi viandanti belli e brutti, ricchi e poveri, tutti provenienti da una scazzottata, da un divorzio, dalla bancarotta o da un paio di settimane di prigione.
A qualcuno fanno paura, tutti incastrati dentro il loro tortuoso labirinto col terrore che il Minotauro li divori da un momento all’altro. E dentro quei corridoi angusti, vanno avanti e indietro, cercando alla disperata la loro via d’uscita.
Il pallone non ha mai disdegnato lo stravizio. "Lui" stesso ne veste bene i panni sudati e sporchi, corti ed essenziali, e un minuto dopo cambiandosi con lo smoking da indossare per afferrare al volo quanti più brindisi, fino a quando l’esasperazione del desiderio non si trasforma nella perdita definitiva della serenità.
C’era finito dentro fino al collo, Tony Adams capitano dell’Inghilterra e dell’Arsenal anni ‘novanta, attaccandosi a quella bottiglia che era stata già tra le braccia di tanti campioni, e che aveva estratto a sorte dentro l’urna della malattia la durata della loro vita di fenomeni reclusi in quel labirinto pieno di vicoli ciechi.
E Tony Adams, difensore “vettoriale”, altissimo, lungo e granitico come una montagna, ha avuto pure il coraggio di verbalizzarla, la sua lunga permanenza nella settimana enigmistica del tasso alcolico del sangue, perdurata e perdurata per ben più di pochi giorni, ma per alcuni anni che gli sono sembrati una vita, comprendendo fino in fondo quello che già la moglie Jane aveva dovuto affrontare per disintossicarsi dalla droga. La dipendenza dall’alcol, per Tony, non era stata di certo un demone minore.
Nel suo libro, “Fuorigioco - La mia vita con l’alcool”, in Italia uscito con Baldini & Castoldi, Tony Adams le confessa tutte, le presunte “malefatte” che lo condussero sul baratro dello smarrimento. Le risse, la galera, le donne prese in affitto, le bevute interminabili, le sbronze e i dolori, di quando il suo carisma non riusciva più a resistere al degrado della depressione che fece reagire come un veleno successi e delusioni, glorie e disonori, quando, per quelli come Tony, una bottiglia di vodka o un litro di birra confondono vittoria e sconfitta. Almeno fino al giorno in cui Tony Adams non trovò la forza di presentarsi a una riunione di alcolisti anonimi dicendo “Sono Tony Adams e sono un bevitore”.
Avete mai fatto caso a una cosa? Gli alcolisti, soprattutto quando hanno bisogno di bere, se ne stanno quasi sempre da soli. Il loro campo d’azione si sgombra dagli schemi. Non sono il tornante o il fluidificante, il regista o la punta, che restano in squadra e si contano intorno per vedere in quanti si è rimasti. Corrono da soli, e se vincono o perdono non è mai affare di qualcuno. Per quelli come Tony Adams, poi, dopo il naufragio, la capitaneria di lungo corso da qualche parte deve pur condurli, e se si tratti di ritrovate compagnie o nuove solitudini, è sempre un calcio a qualcosa destinato a finire in frantumi. Ma Capitan Adams si metterebbe a guardia pure dei cocci.
Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka