Il discorso di Eric Cantona a Monaco ha fugacemente sporto da una finestra immaginaria un Amleto di riserva. Non a caso, l’ex calciatore francese ha tirato fuori un frammento del Re Lear che ha messo il mondo in imbarazzo più di quanto abbiano fatto le sue parole con gli sguardi spaesati di una platea di plastica, messa lì a imbalsamare un pubblico anti coro, senza capacità di giudizio e senza quello spirito di reazione che solo un personaggio singolare e imprevedibile come Cantona può ancora interpretare in un mondo, quello del calcio, sempre più conservatore e reazionario.

Per gli dei noi siamo come le mosche per i ragazzi di strada. Ci uccidono per gioco.”

Troppo sbrigativo sarebbe liquidare le parole dell’ex United condannandole alla gogna sarcastica e dissacrante di quel web che troppo spesso crede di aggirare il peso della riflessione e dell’intelligenza prendendosi gioco di tutto e di tutti. L’illusione dell’ironia a tutti i costi, che, in fondo, talvolta nasconde l’incapacità di affrontarli, certi argomenti. E lungi da qui arrogarsi la presunzione di volerlo fare e di riuscirci.

Eric Cantona si è presentato su quel palco in incognito. Già, perché non è arrivato vestito in smoking a rispettare il protocollo delle frasi fatte, né ad ossequiare qualcuno dei presenti. È arrivato davanti al pubblico e alle telecamere come un personaggio dei film di quel Ken Loach che bene aveva a suo tempo compreso il temperamento intellettuale di un personaggio particolare, che una volta aveva costretto un ministro a smarrire l’etichetta definendo una sua provocazione di uno che dovrebbe pensare ad altro (allora, però, Cantona si era scagliato contro il potere delle banche anticipando la folla attuale di contestatori d’occasione). Del resto, Eric Cantona è stato un calciatore pari e coincidente con l’uomo. Faccenda rara, che sconvolge pure le teorie estetiche. La sua imprevedibilità in campo e il suo gioco fantasioso e risolutivo, netto e inimitabile, frammentario e illuminante, oggi come allora sono restituiti con la sua dialettica, mai smarrita, incline a frasi inattese, apparentemente inopportune e fuori contesto.

E Cantona la sua giocata l’ha sfoderata muovendo le sue parole tra Sartre e Aspettando Godot, derubricando il premio ricevuto a una semplice formalità televisiva, facendo sì che la sua presenza, quella dell’artista, non fosse istituzionalizzata e, al tempo stesso, ricordando allo schermo e alla platea le brutture di un mondo in cui il calcio spesso si propone come metodo etico per contrastarne alcune, ma che, in fondo, fa sì che quest’etica soccomba semplicemente a un’esibizione estetica.

Ci voleva Cantona, il sindacalista, la celebrità in dialogo con Maradona sui guai del pallone e sul significato del calciatore, il contestatore, l’autore che una volta ha giocato a fare il Braque verbalizzando le sue idee in un libro tra il disegno e la letteratura – non come i soliti libri autobiografici dei calciatori – e che non ha mai perso occasione per consegnare al calcio l’identità autentica e guascona delle cose. Il fingitore e lo stratega, l’impulsivo e l’errante, il colpevole e l’egocentrico. L’uomo. Come gioia e come condanna. Per questo, forse, Cantona ha concluso il suo discorso breve e intensissimo, dotato di una logica rigorosa, al contrario di quanto si possa pensare, con un potente “Io amo il calcio”

Prima, però, quell’uomo ha sfruttato la sua popolarità per soffermarsi sull’imbarazzo e l’impotenza davanti a quello che la sensibilità si porta dentro come una quota di disonore. Un peso sostenibile, ma che non se ne va e spunta fuori ogni volta che il privilegio scarta la tara del successo. Una platea inebetita non ha potuto far nulla. Come quando il portiere si vede arrivare solo davanti alla porta l’attaccante. Goal. Eric Cantona ci è arrivato con addosso il Re Lear. E, a proposito di Shakespeare, proprio la tragedia citata dal calciatore durante il suo discorso chiude i cinque atti per bocca di Albany così dicendo:

“Tocca a noi sopportare, il peso di questo tempo funesto: e dire quello che sentiamo non quello che dovremmo.”