La notte di Londra di qualche anno fa è ancora nei ricordi di un Napoli tornato dopo tanti anni nella massima competizione ed eliminato agli ottavi di finale, a fatica, con grande fatica, ai supplementari dal Chelsea che avrebbe poi vinto quell’edizione della Champions League. E il Napoli, sfortunato con quel salvataggio sulla linea sul tiro a botta sicura di Maggio per il 4-1 mancato nella partita di andata, poi infortunatosi dopo venti minuti proprio nella gara di ritorno (quell’infortunio pesò più del goal non segnato all’andata), a quell’appuntamento senza precedenti ci era arrivato superando il girone più difficile di quell’annata: Bayern Monaco (poi finalista), Manchester City e Villareal (allora, tra le squadre più forti di Spagna dopo Real Madrid e Barcellona).

Con Benitez l’uscita dalla Champions registrò il record più incredibile della storia della competizione. L’eliminazione nel girone, con Arsenal, Borussia Dortmund e Marsiglia, con 12 punti. Un demone aritmetico dispose l’imponderabile grazie a un goal nella differenza reti. Un autogol nella prima partita, vittoriosa, che risultò decisivo alla resa dei conti. Di fatto, il Napoli uscì dalla Champions senza essere stato battuto.

Poi, con Sarri al sui secondo anno, un Napoli apprezzato e stimato in tutta Europa dovette arrendersi agli ottavi di finale alla supremazia del Real Madrid dei record assoluti. Sergio Ramos e compagni, però, sudarono le cosiddette sette camicie per avere ragione di un Napoli a un goal dalla qualificazione fino al secondo tempo della partita di ritorno. Anche in quella edizione ci volle la squadra più forte, la vincitrice del trofeo, per eliminare il Napoli dalla competizione.

Dopo l’unico passaggio a vuoto, quello della stagione 2017\2018, in una Champions League scomoda per poter lottare anche per il titolo tricolore, le prestazioni deludenti di un Napoli altalenante nel massimo torneo continentale sono passati quasi sotto silenzio al cospetto del mirabile tentativo di spodestare la Juventus, di abbattere il potere di un club che in questi anni è parso inavvicinabile. Il Napoli di Carlo Ancelotti, partito quinto tra i pronostici mediatici, e costretto ad affrontare già dal ritiro le perplessità sorte dallo scompiglio per il saluto di Sarri, a causa di un sorteggio molto sfortunato, ha dovuto affrontare uno tra i gironi di Champions più difficili degli ultimi anni, in assoluto. Il Liverpool, tra le grandi favorite per la vittoria finale (finalista nell’edizione precedente) e il Paris Saint Germain di Neymar e Mbappe. Il Napoli ha stabilito un altro record amaro e paradossale, uscendo con una sola sconfitta e per un goal nella differenza reti. Eppure, anche in questa occasione, il Napoli ha lasciato la competizione senza essere stato battuto. Da nessuno. Nel computo degli scontri diretti gli azzurri hanno registrato due vittorie e un pareggio. Un pareggio e una vittoria con la Stella Rossa, due pareggi col PSG, ma con migliore differenza reti nell’aggregate, e una vittoria e una sconfitta con identico punteggio col Liverpool.

Ancora una volta, ci è voluta una squadra (attualmente tra le semifinaliste) tra le più forti del mondo per togliere di mezzo il Napoli dei “senza carattere”, dei “senza personalità”, della “squadra che ha bisogno di altri calciatori”. E tutto questo, tra i dimenticatoi per il lavoro di Mazzarri e quello di Benitez, a lungo vituperato, ma con tanta ragione da poter vantarne ancora oggi. Tutto, tra secondi posti e campionati condotti sempre al massimo delle proprie possibilità, solcato da una disputa partigiana tra i nostalgici di Sarri e i suoi detrattori, tra i pro presidenziali e gli scettici sull’arrivo di Ancelotti, per una perpetua divisione che fa della piazza napoletana una specie di partito politico, una Democrazia Cristiana attraversata da correnti e franchi tiratori. Alcuni si dichiarano, sia tra la stampa e sia tra i tifosi, altri, invece, professano la loro dottrina con un pensiero chiaro, anche contestatorio, ma che in certi frangenti non sembra rivelare con nitidezza la sua identità e la sua provenienza, sia tra la stampa che tra i tifosi.

È una tediata abitudine – per alcuni – a salutare i record degli Hamsik, dei Mertens, dei Callejon e di alcuni calciatori che negli anni hanno dimostrato l’affetto e l’attaccamento che proprio i tifosi chiedono e sventolano ignorando, o facendo finta di farlo, che pure certe frange del tifo cadono spesso nella tentazione della professione alla passione, ragionata e interessata proprio come quella, sacrosanta, dei giocatori. Passano anch’essi sotto silenzio, quei record senza titoli e trofei (anche se tre coppe a Napoli in pochi anni si sono viste soltanto nell’epoca di Maradona), buoni soltanto per i tifosi “fessi”, oppure per quelli che si fanno imbeccare dalle parole del presidente e dalla paura del “come eravamo”.

Davanti a tutto questo, dove finisce la sensibilità della passione? Diventa patetico dover rammentarsi quello che forse potrebbe pesare di più? Perché, in fondo, a dimenticarlo ci si iscrive a quella categoria del disprezzo che da una parte agisce secondo il protocollo di una presidenza che troppe volte non ha nascosto il suo fastidio, chiamiamolo così, per la forza identitaria di una città e di un calcio vissuto come qualcosa di ultra sportivo, e, dall’altra, intona l’inno alla pretesa che col pallone ha ben poco a che fare, soprattutto coi Callejon, i Mertens, gli Hamsik o gli Albiol, per citarne alcuni.

A Napoli pare che intorno a questa squadra sia sorta una spinta di disprezzo al rilancio continuo, con tutti saldi sulle proprie posizioni, da troppe parti. E, al tempo stesso, non sarebbe giusto uniformare questa sensazione a tutti, come se esistessero delle categorie sbagliate. Non sarebbe giusto dire che tutti gli ultrà sono sbagliati, o che lo siano tutti i giornalisti o tutti i tifosi. Sarebbe, probabilmente, una faccenda di sensibilità e di intelligenza. Quella buona per intendere con la sua dedizione serena di quello di cui a volte ci si lamenta in eccesso. Con la sacrosanta dose di buona fede. Quella è sempre fondamentale, a cominciare da questa dannata abitudine che il parolaio pallonaro ha preso da un po’ di tempo a questa parte. Dover dire sempre qualcosa e avere sempre qualcosa da dire, a prescindere dalle direzioni e dall’opportunità. Il calcio è circondato dalle sue voci. Provengano dagli spalti, dalle bocche dei protagonisti o dalle parole dei media e dei giornali. Con la speranza che diminuiscano le chiacchiere e i rumori.