Doveva essere solo un mese.

Almeno così credevamo in molti, il 9 marzo, giorno di Sassuolo-Brescia (3-0), che divise in due tronconi il campionato.

Alla fine, invece, saranno 103 i giorni che dividono l'ultima partita di Lega Serie A dalla prossima, prevista per il 20 giugno. Giorno, tra l'altro, del compleanno di Luca Cigarini, Kalidou Koulibaly e Javier Pastore.

In questi mesi tutti hanno detto la propria, sulla ripresa.

Tifosi, opinionisti, veline, addetti ai lavori, calciatori, arbitri, dirigenti, associazioni e federazioni di ogni stregua. Il più delle volte a sproposito, o smaccatamente per tutelare i propri interessi privati: ma quasi mai, fondamentalmente, strettamente sanitari. Anche perché nessuno, soprattutto tra i suddetti, avrebbe titoli o conoscenze necessari e sufficienti a farlo con pertinenza.

L'unica certezza è che sarebbe stato semplicemente grottesco e triste non farlo ripartire.

Mentre l'intero Paese si rimette, seppur lentamente e silenziosamente, in moto, tenere ferma un'azienda globale e ramificata come il calcio sarebbe stato semplicemente folle.

Vero: dati finanziari ed economici alla mano, non si tratta realmente della terza industria del Paese. Ma i numeri non mentono: da solo il calcio produce tra i 3 e i 4 miliardi di euro, uno dei quali finisce a corroborare le casse dello Stato. E quindi, indirettamente, anche tutti noi, che a sua volta lo finanziamo in maniera diretta. Ma il conteggio non tiene conto degli indotti indiretti, come alloggi, trasporti e ristorazione, che vanno a gonfiare oltremodo il totale.

Questi, però, sono solo numeri. Ed, in quanto tali, sterili.

Il calcio, in realtà, non solo contribuisce in maniera tangibile alla struttura economica del sistema Paese, ma da quando esiste ne è parte integrante. A livello sociale e, soprattutto, emozionale. Perché, oltre che esserlo del sistema Paese, è parte integrante anche della quotidianità degli italiani esattamente come il lavoro, la famiglia, la religione. E se - almeno chi non l'ha perso - è tornato in ufficio, in negozio, o in azienda, se i congiunti si possono rivedere già da un po' e se i fedeli sono tornati anche in Chiesa, non vedo perché non ci si debba concedere anche lo sfottò, il tifo, la passione.

Churchill, d'altra parte, diceva che "Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio".

A ben vedere, questa ca**o di guerra chiamata coronavirus, noi italiani ancora non l'abbiamo vinta, ma di certo neanche persa. Ma il calcio non possiamo proprio permetterci di perderlo, caro Sir Winston.

Neanche come fosse una guerra.

...Figuriamoci per colpa di una guerra.