Roma-Napoli 0-0 è stato un ritorno al calcio degli anni ’80, quando la serie A era il torneo nazionale più impegnativo e prestigioso del mondo. Il PIL era da competizione e le squadre italiane s’imponevano in Europa come quelle più difficili da battere. 

La partita dell’Olimpico ha rievocato i segni di quel calcio. Un gioco che era un linguaggio, un’icastica dello stare in campo scandita da schieramenti tattici rigorosi ed essenziali, insieme a una modulistica fatta di pochi modelli e con un regolamento che imponeva altre letture e altre preparazioni.

Il futbol proveniva dalle gloriose esperienze del calcio totale e alcuni club italiani sperimentavano con successo le relative evoluzioni. Tuttavia, al di là degli aspetti tecnici, quello che caratterizzava il gioco di quegli anni era un livello di aggressività con luogo a procedere (cartellini e sanzioni di varia natura si distribuivano con parsimonia) e un intendimento del palleggio costantemente alla ricerca della giocata decisiva.

Era un calcio che si contemplava poco, che non si specchiava e che attuava il suo attendismo attraverso atteggiamenti tattici molto accorti e prudenti, ma sempre con la formula dell’imprevedibilità per cui da un momento all’altro potessero cambiare le sorti di una partita. La parola difesa aveva un altro significato, così come la marcatura e il pressing sfioravano la marzialità. Un gol di vantaggio era tanto, due quasi una certezza, tre era tutto finito. I punteggi erano spesso risicati e in molte giornate di campionato i gol in totale si contavano sulle dita delle mani. 

Passaggi lunghi, verticalizzazioni, cambi di gioco, percussioni e cross erano tutti interpretati in ampiezza e il senso di profondità era spesso un affare personale, per un calcio no fear in cui sortita e contrasto andavano di pari passo. Le azioni rispettavano un’economia del passaggio e del palleggio. Era un calcio apparentemente meno raffinato di quello attuale, ma di gran lunga più difficile da reggere sia sul piano mentale che su quello atletico. Quello tecnico, poi, era messo alla prova dalla necessità di praticarsi con estrema rapidità di esecuzione. Insomma, era un pallone di sostanza e sentimento, in cui il genio se la vedeva dura. E i piedi geniali in quegli anni di certo non mancavano.

Perché Roma-Napoli ha ricordato il calcio di quel periodo? Non di certo per ragioni tecnico-tattiche intese in comparazione - non sarebbe possibile -, ma per interpretazione sì. Si sono viste due squadre che non hanno anteposto la propria filosofia al momento in cui la gara esigeva cambi di fisionomia. La Roma ha retto due tempi, sia pur con alcune fasi necessariamente remissive, di ritmo e di “allungo” del gioco. Con errori, imprecisioni, in certi frangenti con giocate precipitose, ma sempre con un’applicazione mentale senza soste e senza vuoti. Non si è assistito alla ricerca spasmodica del palleggio e a tatticismi che non fossero finalizzati a un’idea precisa. Il Napoli, dal punto di vista tattico, ha giocato la sua gara migliore fino a questo momento.

Spalletti ha preparato un copione essenziale, di ragionamento e senza ossessioni. L’unico difetto è stato quello di aver creato meno palle gol del solito, ma, in fondo, “era una gara degli anni ’80”. Roma e Napoli si sono affrontate anche oltre le righe, con quello che un tempo veniva definito “gioco maschio”, sentendo la partita e facendo percepire l’autenticità di questo sentimento. Ragioni e motivazioni diverse, è chiaro, ma tutte sul terreno di gioco. Una poetica dell’identità senza vanità di fondo e senza ostentazioni filosofiche. Una volta tanto, qualcosa è stato preso sul serio senza patetismi.

Non si è visto nulla di eccezionale se non quell’aspetto: l’autenticità. Tradotta in novanta e passa minuti di agonismo avaro di occasioni, ma mai noioso. E il dispendio c’è stato. Del resto, in quegli anni i calciatori rientravano negli spogliatoi malconci e coi panni da lavoro sporchi. E più felici.