Chi si è sorpreso della mancata qualificazione in Champions del Napoli, non conosce la storia di questo club. Prima e dopo il fallimento del 2004. Lo spreco e la delusione hanno sempre adombrato le vicende sportive, e non solo quelle, di una squadra troppe volte a un passo dal successo. Che si trattasse di un titolo o dell’approdo a un’altra competizione il copione ha spesso recitato finali amari e clamorosi. Allora, qualcosa doveva pur sopravvivere alla fine del calcio di “una volta”. Nel caso dei partenopei il tratto ancestrale resta quello della delusione. 

Come sia possibile che la squadra più in forma, insieme all’Atalanta, dell’ultima frazione di stagione abbia mandato in scena una prestazione così deludente e desolante contro l’avversario che sulla carta doveva essere tra i più agevoli nessuno può dirlo con certezza. Rimane un segreto che si porteranno dentro i protagonisti. Un segreto che sportivamente varrebbe anche poco, se non fosse per il valore simbolico che avrebbe potuto rappresentare, ma che dal punto di vista della gestione societaria è destinato a passare alla storia come una grande occasione sprecata. 

In questo blog è stato scritto altre volte. Da due anni ci si chiede perché il Napoli non abbia deciso di contare su un fluidificante sinistro naturale e affidabile, tranne che per Mario Rui, a volte in polemica con Gattuso e con la società, e da solo troppo poco per affrontare il calendario speciale del calcio ai tempi della pandemia. Allora, ci si è affidati a Hysaj, volontà e leggerezza per un ruolo ricoperto troppe volte da un calciatore impiegato sul piede “innaturale”. E dove sono arrivate le azioni fatali al Napoli nello sprint finale per la qualificazione alla massima competizione europea? Entrambe dove la società non ha saputo, forse non ha voluto, intervenire.

E questo non deve assolutamente colpevolizzare il singolo, perché nel caso del terzino albanese, comunque sempre pronto e serio nel rendimento, si parla di un destro impiegato a sinistra, talvolta spremuto più del dovuto. Ma questo potrebbe sembrare un dettaglio pretestuoso, quasi un cavillo dentro una grande concertazione generale. Invece, va considerato tra le spie perennemente accese di una macchina che avrebbe potuto fornire prestazioni e risultati di ben altra natura, anche a dispetto di una serie di partite in cui pure l’allenatore è apparso in più di un frangente spaesato, in preda a manomissioni da disperazione, con cambi che annullavano un reparto per affollarne un altro, per letture in corso stroboscopiche e confusionarie.

Per non parlare di quel cattivo processo psicologico che troppe volte ha contraddistinto questo Napoli. Col Verona si è avuta la sensazione di una squadra scarica mentalmente perché appagata ed eccessivamente rassicurata dal successo di Firenze, come se la Champions fosse stata conquistata con una giornata di anticipo, dando troppo per scontato che l’ultima gara sarebbe stata una formalità.  

L’ultima delusione si è consumata in una nevrosi collettiva che si è sottratta alle sollecitazioni esterne grazie a un silenzio stampa che in sé s’è dato ragione per i troppi torti provenienti da un ambiente giornalistico, quello napoletano, troppo alla ricerca delle proprie ragioni a dispetto di chiunque, Napoli compreso. Un allenatore che si è offeso troppo presto, per quelle stesse cause che lo avevano portato a Napoli (il Napoli s’era guardato intorno anche durante il periodo di Ancelotti e il guardarsi intorno aveva scelto Gattuso), una società schiacciata nella sopportazione di un silenzio pronto alla liberazione appena un minuto dopo la delusione finale, un senato dentro uno spogliatoio che si è lamentato quando i metodi erano troppo morbidi e si è ammutinato quando sono arrivati quelli duri, una serie di contratti in scadenza e qualche giocatore inspiegabilmente tenuto fuori nel finale che contava (su tutti Demme) hanno rivelato il distacco incolmabile tra dirigenza e guida tecnica. Un distacco che se non sarà colmato col prossimo allenatore, riproporrà gli stessi effetti. 

È tempo che la piazza torni a fare la piazza, che la tifoseria organizzata smetta l’anti delaurentismo e che la stampa locale si riappropri di un senso più intelligente e meno permaloso dell’osservazione di un gioco che a Napoli gli appassionati considerano una cosa seria. Tuttavia, questo è un tempo che non si riappropria più di nulla, ma che smette a più non posso illudendosi che cambiare sia l’unica soluzione per migliorare le cose. del resto, l’impazienza è una malattia che ha colpito il calcio da un bel po’ di tempo. 

I singoli? Costrizione ormai fastidiosa quella di soffermarsi sempre sui soliti nomi. In fondo, che non sia proprio questo il problema; aspettarsi qualcosa di più dai soliti nomi, quando bisognerebbe trovare il coraggio di avanzare al primo posto il nome della squadra e del club, senza, però, mettergli addosso il mantello dei bilanci e dei fatturati fini a se stessi, ma anteponendo gli strumenti che fanno di una società di calcio un sistema tarato per provare a vincere, a imporsi anche al di sopra delle anomalie di una Serie A restia alle sorprese. Se l’improvvisazione del patto, del sogno o del gruppo di turno si ripete ogni volta come l’unica speranza possibile, allora pure le grandi ambizioni si coprono di ridicolo. Si finisce per recitare una parte, calati dentro personaggi che non si capisce più se siano lì per fare i protagonisti, gli antagonisti o le comparse.