Ormai il Napoli sembra amare la parte di quello che intorno al Vesuvio si riassume col vecchio detto che “ 'E dritti moreno sempe pè a mano 'e nu fesso ”. Adesso non ce ne vogliano le squadre destinate a fare da riserva punti di una serie A che è completamente fuori dalla sua storia. Quando questo campionato era considerato il più difficile del mondo, fino a pochi anni fa, non si assisteva a un 5-0 dopo poco più di venti minuti di gioco e, solo per fare un altro esempio, recuperare due reti, anche con tanto tempo a disposizione, era un’impresa quasi impossibile. Gli zero a zero fioccavano, come i risultati che non andavano oltre le due segnature per partita. Giocare in trasferta era un’insidia anche per la prima in classifica e, quando in uno stadio si presentava la prima della classe, la squadra di casa mostrava più grinta e aggressività del tifo sugli spalti. Un calcio andato. Non meno esente da dubbi e da momenti di scarsa credibilità, ma molto più autentico e sentito di un circo che oggi si colora di tinte d’artificio e sfoggia una spettacolarizzazione noiosa, diventata uno show prevedibile e facilmente pronosticabile.

In mezzo a tutto questo, il Napoli di Maurizio Sarri sembra voler recitare a tutti i costi la parte di chi si smarrisce laddove dovrebbe sapere e dover ritrovarsi come quasi imbattibile. Se si vanno a leggere i risultati che il Napoli ha registrato con le cosiddette “piccole”, con tutto il rispetto squadre che in campo mandano prestiti e calciatori convocati dalla primavera, non si riesce a immaginare una squadra terza in classifica e in lotta per la qualificazione diretta in Champions League. Pescara, due volte Sassuolo, Palermo in casa e Genoa, il Napoli ha raccolto 5 punti su 15. Lo scarto fa più o meno la distanza che lo tiene lontano dalla Juventus prima in classifica. E senza contare il pareggio interno con la Lazio, frutto di un’ingenuità collettiva al limite della follia, degli errori di mancanza di concentrazione altrettanto evidenti patiti nel pareggio di Firenze e delle amnesie al limite del rocambolesco nella doppia sconfitta con l’Atalanta. Lo scorso anno il Napoli ha perso uno scudetto perché con Carpi, Sassuolo, Empoli, Bologna, Genoa e Udinese i partenopei hanno raccolto 3 punti su 18. E anche qui senza considerare un pareggio interno con la Sampdoria dopo un doppio vantaggio e una gara praticamente dominata. Parliamo di un computo totale da 21 punti (punti alla nettissima portata, inutile girarci intorno), dei quali solo 4 portati a casa. Se il Napoli avesse fatto soltanto la metà di tutti questi punti, la storia di quello scudetto sarebbe stata la stessa? E se in questa stagione, anche qui sarebbe un eccesso di diplomazia girarci intorno, il Napoli avesse fatto solo la metà di quei punti letteralmente sprecati, la qualificazione diretta in Champions sarebbe in discussione? Forse, chissà, sarebbe stato in discussione ben altro. 

Tutto diventa ancora più paradossale se si considera che il Napoli ha battuto due volte il Milan, ha dominato l’Inter al San Paolo, ha vinto due volte a Roma e sta registrando un ruolino di marcia in trasferta da media scudetto. Davanti a tutto questo, davanti ai numeri che questa squadra riesce a fornire alle statistiche, non può che aumentare la domanda davanti a un rendimento di primissimo livello da un lato, ma che pare scegliere sempre la strada del masochismo ogni volta che ci sarebbe da mostrarsi forti e indomabili coi deboli. Piaccia o meno, la strada della vittoria è segnata pure da questo atto di “vigliaccheria”. Soprattutto da questo, soprattutto in questo campionato in cui 80 punti non bastano nemmeno per qualificarsi in Champions.

A Barcellona, e non soltanto lì, Pjanic, che non è di certo un interdittore sgraziato e privo di qualità tecniche, se c’è stato da spazzare via la palla, lo ha fatto senza troppi complimenti. Perché Hamsik (ma, attenzione, che non si commetta l’ingrato errore di buttargli addosso la croce) a Reggio Emilia ha pensato di effettuare un retropassaggio di testa fuori dall’area di rigore e con una folla di calciatori davanti alla porta difesa da Reina? E perché queste ingenuità negli errori del Napoli, e non c’entra l’età dei calciatori, perché vengono commessi un po’ da tutti, sono così frequenti? Un po’ di sano pragmatismo, di tanto in tanto, guasterebbe in maniera così radicale il meraviglioso gioco di questa squadra? Dover segnare a ripetizione per essere sicuri di una vittoria è una fatica due volte più faticosa. Due gol con un Sassuolo costretto a mandare in campo un primavera dovrebbero essere sufficienti, non ce ne voglia Di Francesco, per portare a casa i tre punti. Invece accade spesso che in queste partite due gol al Napoli bastano a stento per un pareggio.

Si potrebbe proseguire con numeri, esempi, domande, quesiti. È facile dall’esterno, lo sappiamo. Ma un’altra cosa è ancora più evidente della prudenza. Perché il tempo passa e questa squadra non impara a fare le cose più essenziali mentre affina quelle più complesse? Perché pare rifiutare l’essenziale? Quello che a volte si vedeva fare pure a calciatori come Maradona e Careca. Chi vi scrive ne ricorda di partite in cui Maradona, il più “poetico” calciatore di tutti i tempi, se era necessario non badava a fronzoli di sorta e non si risparmiava davanti alla sana e sacrosanta pragmatica della competizione. L’ingenuità del Napoli passa per l’atroce dilemma tra quello che questa squadra sa fare (benissimo) e quello che non riesce a fare. Ma soprattutto, perché questi due aspetti soltanto apparentemente antitetici devono vivere da alternative in conflitto e non da caratteristiche coesistenti? La soluzione principe è trovare il punto di equilibrio, l’incontro tra due dottrine distanti quanto necessarie.

Ce n’è abbastanza per considerare un dato ormai chiaro e consolidato. Il Napoli soffre un genere di partite che, ancor più delle gare con le grandi, di quelle europee, degli appuntamenti di gala, sono potenziale viatico di successo. La formula si è ripetuta troppe volte. Quando non riesce a segnare, questo Napoli teme di non riuscire più a farlo. Quando invece ci riesce, allora pensa di aver compiuto la missione. Invece la grande squadra inverte questo stato mentale. Crede al goal fino a quando non lo trova e, una volta trovato, non media il livello di concentrazione per esiti acquisiti, continuando a giocare come se non avesse segnato, cercando tanto la via della rete quanto la resistenza in difesa. E non c’è nulla di male nel piegarsi a logiche tattiche che altro non fanno che ascoltare le ragioni dell’intelligenza. 

Questa mania di voler a tutti i costi somigliarsi nella spasmodica ricerca di una perfezione che non esiste, a cosa può portare? E poi, aspetto recentemente, e forse anche maldestramente, ribadito e sottolineato anche da Sarri (ormai troppo avvezzo a parole piene di freni), è questa faccenda della “poesia”. Tra le molte contraddizioni emblematiche c’è anche questa storiella. Se una squadra sa giocare bene, meglio delle altre, non è detto che si snaturi se di tanto in tanto adotta registri meno consoni alle sue abitudini soltanto per conservare il risultato. L’unica “poesia” dannosa è ostinarsi a non voler prendere in considerazione anche altre forme di espressione calcistica. Sono così ingenui gli allenatori che lo fanno?

Pure la bellezza delle cose insegna che il pragmatismo vanta altrettanta dignità nel fondo di quelle che funzionano. I grandi edifici non reggerebbero senza la freddezza del calcolo. Allora, e mister Sarri (che non può sempre rimettere tutto al fatturato e alla società) non può sentirsi esentato da questo aspetto critico, che la cosiddetta poesia non diventi paravento di scuse per quello che non funziona e che il pragmatismo non si trasformi in un’utopia per confinare nel sogno una realtà possibile. Altrimenti, se questo è l’andazzo, sia reale che mentale, allora può diventare lecito pensare che questo Napoli sia bene adeguato a una serie A che con troppa furbizia mischia il credibile all’incredibile e che questa piazza, che ancora vanta una tra le pochissimi tifoserie autentiche e popolari, realmente identitarie, per qualcuno altro, se non per troppi, non sia che un esercizio di passaggio, un transito di bella prova per approdare altrove. Si rischia di alimentare quella malafede che vuole suggestionare all'afflizione proprio chi confida che il sogno e la realtà trovino un sospirato accordo.