Ha segnato il suo primo goal dall’altra parte del pianeta, dove, in fondo, lo conoscevano già. In mezzo a una caciara di arroganti pallonari, uno come Del Piero sembra essersi messo sulle tracce di Nemo propheta in patria, come molti altri reietti di lusso del calcio italiano, di ieri e di oggi.

 

Dai uno sguardo alle panchine, butti l’occhio sugli organigrammi delle società e ti giri intorno con la mente rivolta al passato, pure recente, e ne scovi pochi di campioni sinceri, rimasti laddove avevano onorato, fino all’ultimo minuto di carriera, maglia e bandiera, presidenza e tifoseria.
Logiche aziendali, questioni personali, fatti non raccontati, episodi non saputi, nel condimento agrodolce che cuoce i signori del fenomeno calcistico in un arrivederci che non fa mistero di un saluto con la delusione legata al dito.

 

Del Piero, con le sue recenti dichiarazioni, ha lasciato trasparire non poca delusione per come si è dovuto salutare con la sua squadra storica, in fondo, l’unica di sempre. Mestiere assai raro oggi, quello del campione affezionato, con le turbe e le nevrosi del capriccio pure a suo carico, per carità, ma del campione, al quale se non è tutto concesso, almeno andrebbe accordato il favore dell’attesa, il privilegio della scelta, il gradevole imbarazzo dell’opportunità.

 

Senza andare troppo lontano, altri capitani gloriosi oggi non ricoprono incarichi societari, non fanno gli allenatori, non siedono sulle poltrone della federazione. Invece tanti figuranti del passato compaiono improvvisi e improvvidi sulla ribalta delle leve di gestione. Impettiti e ingessati in uno stile ritirato in lavanderia, sembrano figuri da stanza dei bottoni, freddi e compassati, ben sistemati nella loro funzione.
E allora ti spieghi come a volte il calcio si ostini a somigliare alle cose più serie della vita, favorendo gli spiriti mediocri dei burocrati dell’esistenza e spingendo fuori dai suoi confini le anime gioiose e ribelli del campione a tutto giro. Se non altro, di quello che è riuscito a mantenere a livello sindacale la linea della dignità, in un ambiente dove più niente sembra votato alla serietà.

 

Da dove proviene, questa specie di rigetto di sensibilità, soprattutto da parte di certe società che si vantano di una storia secolare, votata a una artificiosa signorilità spinta quasi a una patetica auto celebrazione lustrale. E poi, come per incanto, l’affida a giovanotti coetanei dei campioni che l’hanno fatta grande, che con la stessa posa asettica di un amministratore delegato applicano in maniera discutibile la "legge dell’uguale per tutti". Stanno là solo per appartenenza dinastica, ma per nessun merito, a deliberare, sia pur in maniera latente, sulla sensibilità e la storia del campione.

 

Magari non sarebbe un cattivo esperimento giocare a escludere pure loro, chissà, mandandoli in Australia, con l’unica differenza che non si saprebbe cosa potrebbero andare a fare. Di certo non a incantare la folla. Quello, è un mestiere per il campione, carica naturale invisa alle dinastie.

 

Elio Goka