Ne La pressa di Hanta è stato scritto a più riprese che salutare è un’arte. E che per farlo in questo genere di calcio la scena ha bisogno tanto dei suoi protagonisti quanto dei comprimari. Azione difficile in un clima in cui è facile scontentarsi e difficile ricordarsi del buono che è passato e che non tutti sono disposti a metterlo davanti a tutto.

Con il saluto di Koulibaly se ne va l’ultimo “superstite” di quel Napoli che in molti hanno targato Sarri, ma che, di fatto, resta la costruzione in fieri di Rafa Benitez. Con Sarri arrivò la magia di una squadra che ha lasciato un segno pure senza vincere, ma le pozioni e gli alambicchi resteranno sempre dell’allenatore spagnolo. Per suo merito, suo carisma e un po’ per casualità, sotto la sua guida, per sua volontà e per quella di Bigon e De Laurentiis, sono arrivati quelli che avrebbero scritto una storia amata, discussa, pure un po’ bistrattata. Adesso, con il “comandante”, come lo ha apostrofato Spalletti, se ne va l’ultimo frammento di un Napoli dalla giacca tirata e lo spirito incompleto.

Kalidou Koulibaly prima o poi sarebbe sceso da quell’altezza indimenticabile che per una notte fece sognare un’impresa storica a un Napoli delle meraviglie cresciuto dal signor Maudes di cui sopra e alleatosi contro le incertezze, diciamo così, di una società e di una proprietà non sempre in linea con la squadra e con se stessa. Allora si parlò di un patto a dispetto di. Storia divisa tra la realtà e la leggenda metropolitana, ma che un fondo di verità probabilmente negli anni successivi lo avrebbe dimostrato. 

L’atterraggio di Koulibaly dal volo a segno a Torino avrebbe segnato il prosieguo verso una gioia mancata e un saluto, l’ennesimo della storia del Napoli post fallimento, ripiegato su se stesso e su una liturgia della delusione che, tra una stampa leggera e superficiale e una tifoseria disorientata, oggi domina gli entusiasmi troppo afflitti da sensazioni negative, cattive percezioni e continui assaporamenti di speranze sistematicamente deluse.

Non ci si soffermi a lungo sull’addio di questi o di quello. Il pallone funziona secondo una razionalità a cui gli otto anni di Koulibaly, come quelli di Mertens, o come quelli che furono di Hamsik, in maniera diversa hanno saputo comunque tenere testa. A Napoli sono passati grandi calciatori che sono rimasti a lungo, molto più a lungo di quanto a un certo punto ci si sarebbe aspettati. 

Probabilmente saranno in molti a criticare il calciatore, così come saranno tanti pure quelli che si scaglieranno contro la proprietà. Per l’ennesima divisione interna con lo sguardo rivolto a un esterno che andrebbe affrontato in tutt’altra maniera. Ma la cessione o la decisione del calciatore, o entrambe le cose, forse non dovrebbero raccogliere la polemica, ma la rassegnazione di un rapporto che è finito. Lungo e intenso. Basti già la dimessa consapevolezza davanti a un calcio che ormai funziona in un certo modo già da tanto tempo. Pretendere che il suo meccanismo risponda a forme di fedeltà che nemmeno i tifosi di oggi, o almeno una parte, non riescono a rispettare, è un furor di retorica fuori luogo. E perché aggiungere qualcosa di démodé a quanto già fa abbastanza fatica per trovare dei segni identitari, duraturi?

A chi vuole ricordarli, bastino gli otto anni di Koulibaly, i goal da record di Mertens, la classe di Hamsik, il gran gioco degli anni di Albiol e Callejon e tutto quello che di buono quel Napoli ha mostrato. Fino a una consumazione in cui altri ci hanno provato, ma pochi ci sono riusciti. E fino a un certo punto. L’unico rimorso che dovrebbe restare ai diretti interessati è quello delle parole che sarebbe stato meglio risparmiare. Ancora una volta, sono quelle a fare più danni. In quelle ci finiscono gli amori impossibili promessi, gli "incatenamenti", le affezioni di bilancio e la napoletanità a orologeria. E intorno a queste parole, francamente, viene facile ricordare che sono state adottate avventurosamente un po’ da tutti.