A Napoli in questo periodo sembra che si sia instaurato un regime di opposti che, contrariamente alla legge fisica, non sembrano attrarsi. Ancelotti appare come l’alter ego di una società che non si è ancora capito se vuole trattenerlo o mandarlo via. Una luogotenenza in pectore che da lontano si percepisce più come la voglia di non avere voglia che di una meditata e ferma decisione. Un me ne lavo le mani collettivo che o nasconde qualcosa che a gennaio si rivelerà con tutta la sua brutale incidenza, oppure, e sarebbe davvero preoccupante, è un tirare a campare più stiracchiato e arrangiato di un governo all’italiana.

La linea caotica che da qualche settimana ha spento il pallone e ha acceso una grande depressione collettiva, probabilmente, non proviene dai malumori degli ammutinamenti e dei ritiri sgraditi. Mentre l’allenatore persegue nella sua inevitabile diplomazia, dispensando una serenità che a tratti infastidisce, vista la classifica, una parte dei calciatori esibisce tutta l’indolenza che fino a qualche tempo fa sarebbe stata insospettabile e inimmaginabile. Ma il calcio si regge su equilibri precari, in composizione di danaro e vanità, lusso e privilegio, all’ombra di presunti sacrifici e di facili rigetti di questa o di quella appartenenza.

Se una società, anzi, se un presidente è avvezzo a uscite destinate a minare quegli equilibri, prima o poi qualcosa si lascia andare. E nel peggiore dei modi. Se una società di calcio che ambisce, almeno si spera, a raggiungere i livelli più alti del calcio europeo, affida tanto i suoi pregi quanto i suoi difetti a una gestione generale che rasenta la ditta familiare, allora, quando il tempo pretende i suoi cambiamenti, quando il corso degli eventi chiede di ottemperare a certe pretese, la ditta non basta e lo squilibrio è dietro l’angolo.

Paradosso ha voluto che tutto questo è accaduto nella stagione in cui De Laurentiis non ha fatto il De Laurentiis, decidendo di trattenere tutti i pezzi pregiati dell’organico azzurro e di affiancarli ai nuovi arrivi, altrettanto pregiati, per formare il Napoli più forte del dopo Maradona. Col senno di poi, se il patron dei partenopei avesse tenuto fede alle sue vecchie strategie, vendendo all’apice del loro valore determinati calciatori e rifondando un gruppo nuovo di zecca più congeniale alle idee di Ancelotti, forse adesso si starebbe parlando d’altro. Tuttavia, si tratta di un senno di poi che racchiude altrettanti malumori, dubbi e ipotesi che lasciano il tempo che trovano. Del resto, se la linea rigida confinata all’uomo solo al comando della società potrebbe essere in questo momento una delle cause di questa crisi, allora qualcosa sarebbe andato storto pure se fossero state prese decisioni diverse.

Intanto, quegli stessi calciatori che fino a qualche tempo fa avevano fatto innamorare i tifosi di un gruppo di atleti che avevano avuto il merito di interpretare al meglio le parole entusiasmo e appartenenza, ora, al di là di torti e ragioni che dall’esterno non possono essere conosciuti e valutati, sembrano votati a una contemplazione irritante e indelicata di quello che sono stati. Quello che erano è ancora vivo nei ricordi di una tifoseria che non merita certi spettacoli, che, sia pur rea di essere stata pretenziosa ed esasperante in certi frangenti, resta una tifoseria che al Napoli non ha mai chiesto più dell’onore alla maglia. E non c’è niente di peggio per un tifoso di calcio, un tifoso vero, che dover affrontare il disamore verso chi lo rappresenta. 

Un’amarezza che non ha via d’uscita, perché quando è così grande ed è così evidente e diffuso l’atteggiamento di chi avrebbe il dovere di scongiurarla, la prima sensazione è che niente può arrivare a risolvere le cose. E, se pure fosse poco, sembrerebbe sempre così lontano. Come l’area di rigore avversaria, per una squadra che fino a poco tempo fa si era sempre distinta per saperla avvicinare con entusiasmante disinvoltura. La stessa disinvoltura con la quale quell’entusiasmo è stato smarrito.