Da un lato il baratro dentro il quale, anche a livello federale tra mancanza d’intese, commissariamento, e un’affannosa ricerca del prossimo ct, è piombato il progetto azzurro, alle prese con una delle crisi sportive, culminata con l’eliminazione dai Mondiali di Russia, più drammatiche della sua storia.

Dall’altro lato, quella che è inopinatamente, con 19 reti in 25 gare tra Ligue 1, preliminari di Champions, Europa League e Coppa di Francia, la migliore stagione di sempre per quello che sei anni fa prometteva di essere l’alfiere dell’Italia degli anni dieci.

Ora sensazioni, voci e mezze conferme che raccontano dell'intenzione del ct ad interim Gigi Di Biagio di tornare all'antico: tutte le congiunzioni astrali sembrano essersi allineate per il ritorno di Mario Balotelli in azzurro, dopo quattro anni di purgatorio, lontano da quella maglia che più di ogni altra, nell’estate degli Europei del 2012, parve donargli. Ogni discorso era chiaramente acerbo, ai tempi Super Mario giocava (pochino) al Manchester City, ma più d’un ottimista credeva che, di lì in avanti, Balotelli non sarebbe stato l’attaccante dei citizens, o del Milan, o del Liverpool, o di qualsiasi altro club lo avrebbe tesserato. Nell’immaginario degli italiani, dopo la doppietta alla Germania, Balotelli sembrava semplicemente essere diventato, un po’ come accaduto a Roberto Baggio (fatte le doverose e mostruose proporzioni), il giocatore della Nazionale Italiana.

Il punto di rottura passò per un'altra ferita sportiva a tinte azzurre, la prematura conclusione del Mondiale brasiliano (nel quale, peraltro, Balotelli segnò), dopo sole tre partite, e in mondovisione: in una dichiarazione postpartita senza precedenti, reduce dall’eliminazione contro l’Uruguay, capitan Buffon ci andò giù pesante, con un attacco che chiunque interpretò come palesemente rivolto a Balotelli (all’epoca 24enne). “Quando si va in campo non bastano più i ‘potrebbe fare’ o i ‘farà’, ma serve 'fare'”, disse anche saggiamente il n.1 azzurro. Di fatto, significò la destituzione fino a data da destinarsi di Balotelli dalla Nazionale Italiana, sposata dai due successivi ct, Conte e Ventura, il passaggio da promessa ad epurato in un batter di ciglia.

Idealmente, e con crudele ironia, il confino di Balotelli potrebbe chiudersi (se effettivamente come sembra ci sarà la chiamata di Di Biagio) all’indomani di una nuova celebre intervista postpartita di Buffon, lacrime agli occhi, sul prato di San Siro, al termine di un dramma se possibile ancora peggiore come quello rappresentato da Italia-Svezia. Pianse a dirotto il portiere della Nazionale nella sera più nera per i tifosi italiani, e tra le altre cose fu la certificazione del fallimento di un movimento, ma anche di un progetto tecnico, di chi ne aveva fatto parte, di chi aveva selezionato, ma anche di chi aveva escluso. Perché la sera di Italia-Svezia sostenere ancora il problema principale dell’Italia fosse Mario Balotelli, che in Nazionale non ci aveva messo piede in tutti i quattro anni precedenti, risultava davvero complicato.

Balotelli non era il salvatore della patria, il traino di una generazione, l’uomo su cui fondare la Nazionale, ma nemmeno il pericolo pubblico numero 1, forse troppo frettolosamente bollato come problema. Né veleno, né antidoto, né unica soluzione, né unico problema: probabilmente dovremmo riporre le isterie collettive nell’uno e nell’altro senso e considerare Balotelli come, semplicemente, un attaccante sul quale decidere se contare. In un periodo in cui i centravanti azzurri sui quali fondare tutto il progetto non hanno esattamente entusiasmato, è già grasso che cola. Forse non sarà mai davvero il giocatore degli italiani, ma certamente riparte rinfrancato da una sentenza amarissima per noi: in Russia l’Italia non ci è certo non andata per colpa di Mario Balotelli.

“In medio stat virtus”, sostenevano i latini. Che il Balotelli azzurro 2.0 (se davvero si deciderà di andare in questa direzione) possa nascere anche sotto questa stella.