Certe giocate hanno un’equazione dimensionale che fonda il gelo dell’autocontrollo e l’armonia della perfezione estetica. Il calcolo e la letteratura, l’aritmetica e il colpo di genio si uniscono per dirigersi spediti e sicuri verso lo zero assoluto. Oltre più niente, se non l’effetto straniante dell’incredulità.

Il goal di Luis Alberto segnato alla Spal andrebbe esposto, fotogramma per fotogramma, presso tutti i musei della storia del calcio. In compagnia dei grandi capolavori, nella galleria delle perle e dei prodigi. Sotto, netta ed essenziale, la didascalia con su scritto “Quello che vedete sorvola con fierezza e imperturbabilità le frivolezze e le inezie del calcio che ha bisogno del calcio”.

Il pallone che spiove cadendo dritto e pesante come la proiezione di un effetto casuale e imprevisto dell’azione, la corsa dell’attaccante verso il punto di caduta contemporaneamente a quella del difensore per la stessa destinazione. Calciare subito verso la porta? Fermare il pallone e coprirlo per cercare un compagno? Farsi vincere, come quasi sempre accade, dalla necessità e dall’urgenza di impossessarsi della palla. Al resto si penserà una volta riconquistato il pallone. Invece no. Nulla di tutto questo. Luis Alberto controlla il momento fisica e sposta la palla di quel tanto che basta a sbilanciare il difensore facendolo cadere a terra. All’ingresso dell’area di rigore i difensori diventano due. Calciare in porta? Cercare il compagno libero? Eseguire una delle soluzioni che il protocollo prevede al di là dell’efficacia del risultato? Anche stavolta il sangue dell’attaccante raggela in un istante di freddezza assoluta. Una carezza alla palla e un altro difensore va giù sbilanciato dalla destrezza e dalla bellezza. L’altro nemmeno intende l’accaduto e si trova fuori dalla possibilità di intervenire. Un campo di battaglia dolce e pacifico, un colpo di fiore a dominare uno spazio piccolissimo. Luis Alberto arriva davanti al portiere, aspetta la sua uscita e lo beffa con un tocco al pallone che scavalca l’ostacolo della disperazione e finisce dentro l’angolo più lontano, il punto silenzioso e lontanissimo destinato a fare da termine all’impresa, da parola fine al capolavoro.

Azioni simili sono state ammirate anche in altre occasioni. I movimenti e l’idea del goal di Luis Alberto non sono nuove, anche nel campionato italiano. Nel 2002, in un Roma-Torino di inizio gennaio, Francesco Totti realizza una rete per cui l’azione del calciatore laziale ricorda quella dell’ex capitano giallorosso.

Dribbling sul portiere con piede sopra il pallone, difensori disorientati, col portiere messo fuori causa dalla finta e controllo a seguire, e finta ulteriore all’ultimo uomo sulla linea di porta. Una danza in forma di slalom che mette a sedere mezza difesa granata, per poi depositare la palla nella porta vuota. Anche lì, come in altri casi analoghi, la padronanza dell’idea, del concetto, prima ancora che dell’abilità tecnica. 

Goal così, come quelli di Luis Alberto, se ne vedono pochi. La formula per realizzarli è una combinazione di tutti gli elementi nobili del gioco del calcio. Lucidità, fantasia, tecnica e rapidità di pensiero. Tutto dentro l’attimo superiore governato da quella forza che consente al giocatore di sopportare la solitudine della responsabilità. Quando tutto intorno diventa superfluo e solo quei movimenti precisi e irripetibili rappresentano i numeri, le distanze, i tempi per la visione di un capolavoro. Quando il gesto pareggia il fine, quando l’azione compete con la vittoria comprimendo la gloria nell’ebbrezza di pochi istanti. Quando la palla somiglia si specchia al cielo e il cielo autorizza la palla al miracolo. Il goal di Luis Alberto aspetta che qualche altro capolavoro lo segua in quella galleria immaginaria per cui certe cose di questo gioco vantano ancora il diritto di esistere.

Getty images, Fantagazzetta

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