Durante la conferenza stampa alla vigilia di Napoli-Salisburgo, un giornalista ha chiesto ad Ancelotti cosa pensa del fatto che al primo risultato negativo, un calciatore o un allenatore venga subito criticato e portato al banco degli imputati. E che questa abitudine non risparmi nemmeno allenatori e squadre che hanno vinto titoli e trofei. L’allenatore del Napoli, allora, ha risposto serafico: “A questa domanda dovreste rispondere voi”.

Nella risposta di Carlo Ancelotti, forse, c’è tutta l’insofferenza verso una cultura della vittoria che anche tra tifosi e appassionati sta dettando il protocollo del successo come unica possibilità ammissibile. Sta scomparendo la pedagogia della sconfitta. L’industrial fútbol impone una cultura del primato che ha il sapore dell’analisi aziendale. Una strilloneria mediatica detta gli obiettivi di stagione, come i consigli di amministrazione delle multinazionali. Se non vengono raggiunti, si viene bollati di fallimento, una parola abusata come poche in un ambiente talvolta frequentato da mannequin dell’opinione, alcuni (o alcune) dei quali un campo di calcio non lo hanno mai calcato. Molto spesso, si avverte una mancanza di rispetto di fondo per chi, invece, ne avrebbe di cose da insegnare, in un completo annullamento di quella distanza colmata da una presunzione priva di fondamento, al riparo in studi televisivi e social network. Salvo le magnificazioni, spesso servili e patetiche, riservate a chi indossa certe casacche o a chi è protetto da procure potenti.

La frase del mister emiliano, forse, è una fronda raffinata che dovrebbe indurre il giornalismo sportivo a porsi non poche domande su se stesso, su come il suo lavoro si sta ponendo davanti al lavoro degli altri. Non è minima la componente mediatica che ormai da molto tempo alimenta l’insofferenza di molti tifosi e appassionati, pervasi esclusivamente da una cultura del successo riconoscibile soltanto in un primo posto -chissà che senso avrebbero oggi l’Ungheria di Puskás o la nazionale olandese degli anni ’70 - che assume il valore di salvacondotto, di via di fuga dalla critica e dalla gogna. La vittoria come salvezza, una forma ingloriosa della gloria. Un pallone che in parte è nutrito dai soldi delle televisioni non poteva che curare una nomenclatura della sensibilità e del rispetto spietata e calcolatrice, distribuendo giudici e sobillatori nelle redazioni e negli studi televisivi. Il dito puntato ha scritto regole che, poco a poco, hanno inciso un nuovo decalogo in grado di aggredire lo sturm und drang (a proposito di romanticismo) dei tifosi. L’imperdonabilità, quanto di peggio possa entrare nello spirito sportivo. Pure quando lo si vive dall’esterno.

Quando, ormai sempre più raramente, accade che qualcuno rievochi la cronaca punto e basta, quando ci si rivolge a una forma più cauta dell’osservatorio giornalistico, che non sia confusa con quella insopportabile ipocrisia buonista che sistematicamente viene somministrata durante le numerose trasmissioni televisive, lo si fa in ragione di una nostalgia di quel calcio che in maniera sbrigativa viene definito romantico? O forse perché si avverte la necessità di ripercorrere formule differenti della cronaca e del racconto, della critica e dell’analisi di quello a cui si assiste? Che poi anche questa definizione del romantico ha un po’ stancato. Come se il romantico dovesse irrimediabilmente legarsi al passato e all’irrecuperabile. Chissà che un giorno anche questo calcio non passi per questa definizione.

I media, globalmente intesi, impiegano se stessi per dare voce a un genere di cultura sportiva che soltanto la loro ipocrisia finge di contrastare. Da una parte si affrettano a indurre gli spettatori a forme di emozione che passano per momenti di commozione talvolta venduti al dettaglio, come se pure quelli dovessero attraversare la trafila dello spettacolo, e dall’altra trattano l’esito della disputa e il lavoro altrui alla stregua di una partita iva. La loro è un’educazione, a proposito di pedagogia, al calcio compresso nella dignità riconoscibile soltanto sul gradino più alto del podio, e che, per certi aspetti, quel podio lo ha addirittura smontato, appiattendo pure il successo sopra una linea orizzontale dove pure i primi posti durano per poco, in un’adiacenza rapida e schiava pure al dovere di ripeterlo, quel successo, prima che qualcuno lo definisca casuale con annessa condanna al dimenticatoio. 

Non è una forma di arrendevolezza quella dell’appassionato che cede a questo nuovo formulario delle tensioni? Con quanta umanità va a combinare la propria empatia? Non si rischia di diventare conduzione di questo genere di cultura sportiva? Un sissignore al diktat di un genere di smania del successo che rischia di deporre l’aspirazione del sogno per trasformarsi in un’ossessione che assume i toni dell’incubo. È questo il calcio che desideriamo? È questo un fenomeno che un giorno potrà ancora dirsi dell’umano? Chissà che sfuggirvi e restarne immuni non sia già una forma di successo.