Ne La pressa di Hanta, subito dopo Napoli-Juventus, un interrogativo aveva fatto penzolare qualche domanda sul prosieguo prossimo dei partenopei e sul metodo Spalletti. Le risposte, ancora nella fase di quella provvisorietà per cui tanto tempo dovrà passare, hanno approvato la possibilità di confidare che quel metodo potrebbe aver messo mano a uno dei punti oscuri del Napoli degli ultimi anni.

Soprattutto dall’avvento di Ancelotti, gli azzurri si erano quasi sempre resi protagonisti di una ciclicità viziata, difettosa, sull’orlo dell’illusione. Dopo il primo anno, sperimentale e di rielaborazione, la seconda stagione di Ancelotti ha visto il Napoli balbettare in campionato e superare brillantemente, da imbattuto, il girone di Champions (con dentro il Liverpool campione d’Europa costretto a lasciare quattro punti ai campani) per poi consegnarsi all’esonero del tecnico e al celebre ammutinamento.

Con l’arrivo di Gattuso, il principio era stato disastroso, per poi riaversi fino alla vittoria della Coppa Italia. Nell’annata successiva, il Napoli era partito benissimo, per poi riperdersi in mille errori e contraddizioni alimentate da troppi infortuni e qualche sfortuna di troppo. Alti e bassi per una stagione segnata da una Supercoppa italiana persa con un rigore sbagliato da Insigne e da una qualificazione in Champions clamorosamente mancata in un turno a tratti scontato all’ultima giornata e dopo una grandissima rimonta caratterizzata da una lunga sequenza positiva. Insomma, il Napoli caratterizza il suo rendimento di una sola costanza, quella di improvvise e dannose interruzioni che si verificano nei momenti più delicati. 

Alla vigilia di questo campionato, il timore che questo fosse un aspetto strutturale della tenuta mentale di questa squadra è stato velato dalle perplessità sul mercato, dalle critiche dotate di pregiudizio e da una serie di malumori. Senza, forse, ammettere che la reale paura di fondo fosse l’inaffidabilità del rendimento, sprovvisto di quella continuità necessaria per arrivare molto in alto. Tutto questo, se rapportato allo scorso anno, comunque gravato da un periodo di assenze senza precedenti per durata e quantità.

Così come era stato sottolineata l’ipotesi che Spalletti stia costruendo il suo Napoli proprio sulle sue contraddizioni, al tempo stesso rinviene l’ipotesi che una certa continuità provenga proprio da una metabolizzazione di se stesso. Un’autoterapia generale sembra aver avviato l’organico guidato dal tecnico toscano alla rimozione di nodi e paure. La percezione di questo sviluppo psicologico arriva da evidenze che si manifestano anche fuori dal terreno di gioco, dove, al contrario, in certi frangenti il Napoli sta tirando fuori rabbia e maggiore agonismo. Nelle uscite pubbliche, nelle dichiarazioni dell’allenatore e dei calciatori, soprattutto quelli più rappresentativi, traspare una serenità che pare tenere conto di tutto e di niente. Che conosce le difficoltà del percorso, perché forse le ha a lungo sperimentate, ma che ha ben presente il trucco di non lasciarsi condizionare. 

Caso ha voluto che in questa prima fase di campionato il Napoli sia stato in svantaggio nelle due gare sulla carta più complicate: Juventus e Fiorentina. In entrambi i casi, Insigne e compagni hanno saputo ribaltare a proprio favore il punteggio, dando la sensazione di non subire alcun effetto negativo dalla momentanea situazione negativa di punteggio. Cambi non sempre prevedibili, schemi su calci piazzati, assetti di gioco flessibili, moduli mutevoli e frequenti letture in corso sono gli aspetti tecnicamente più interessanti, al momento, del gioco di Spalletti. Ed è proprio questa capacità di cambiare volto a far sì che il Napoli non si smarrisca.

Occupati a rintracciarsi per quello che vale, per quello che può esprimere e non per quello che a prescindere si dovrebbe memorizzare. Una restituzione di sé che inganna, invece di ingannarsi. E che non vieta entusiasmi e picchi di iniziativa a certi calciatori. Un Napoli leader del Napoli con calciatori a guida di se stessi e della squadra.