Non sospendete più le partite. Davanti ai cori razzisti e ad altre manifestazioni di questo tipo, non fermate più il gioco. È inutile. Lo è perché i tentativi avvenuti di recente e in passato non sono serviti a nulla. Ormai si sfiora la più patetica e altrettanto offensiva retorica. Un’etica di consumo, nulla di più.

Che si tratti di quella che chiamano discriminazione territoriale, che si tratti di razzismo contro calciatori di un altro colore della pelle, non ha alcuna importanza. Interrompere significa tributare il momento. A proposito, basta pure con certe distinzioni. Un altro colore della pelle? Che significa? Qual è questo colore che dovrebbe rappresentare la tinta discriminante privilegiata? Quale questo colore che dovrebbe essere l’unità di misura delle distinzioni umane? Pure questo, ancora, nel terzo millennio. E basta pure con questa storia dello sfottò nazionale. A tanti italiani piace prendersela con la parola Napoli per ragioni che vanno oltre il campo di calcio, oltre lo stadio e oltre il pallone.

La Uefa, ormai da anni, ha imposto alle televisioni di non inquadrare gli invasori di campo, con la ragione di scoraggiare l’intento evitando che questo goda di attenzione mediatica. Interrompere le partite significa inquadrare la voce di queste persone. Che sono tante. Non è vero che sono poche. Sono centinaia, migliaia. Ci sono occasioni in cui quello che si ascolta è forte, potente. Basta con questo paravento altrettanto retorico e patetico del sono poche persone. Non è affatto così. Sono tante, tantissime. Di ogni età. Dentro e fuori i gruppi ultras. Sono in ogni settore dello stadio. E non solo. Quando l’arbitro interrompe il gioco, dando il là a un protocollo squallido e da presa in giro, un gigantesco primo piano regala tutta l’attenzione a quei coristi. Soltanto questo. E non ha niente a che vedere con la denuncia e con il dissenso, perché proprio in televisione spesso si assiste anche al silenzio dei telecronisti e dei commentatori negli studi televisivi. Perché non sempre certi episodi vengono sottolineati.

Ecco che, se tutto deve ridursi a un’interruzione momentanea, l’effetto rischia di ridimensionarsi in una forma subdola e paradossale di riconoscimento, di spazio d’azione. Un’area dialettica in luogo di confronti in diretta tra capitani e curve, tra calciatori e spalti. Una platea in dialogo con quel terreno di gioco che si arrende, perché il suo ammonimento sa di non poter oltrepassare il rimprovero del momento. E, allora, tutto si trasforma in una desolante contorsione della sanzione. Che tale non è, per un frangente che adotta una norma imperfetta. Avrebbe un senso se l’arbitro fischiasse la fine anzitempo e mandasse tutti a casa. E oggi ci sono tanti strumenti che consentirebbero di intervenire analiticamente sugli spalti e su quello che vi accade. Anche queste le solite chiacchiere. Perché certi strumenti vengono utilizzati soltanto per lavate di faccia altrettanto ridicole. 

Non c’è provvedimento peggiore di quello che si pone con leggerezza. La superficialità a volte può fare più danni dell’assenza, perché la superficialità genera un effetto contaminazione. Una pedagogia del nulla di fatto e del nulla può essere fatto ne certifica il fallimento. E certi momenti non sono punizione, né mortificazione, ma omaggio indiretto a chi gode di quel protagonismo d’occasione. E non si fraintenda il principio di questa riflessione, perché niente ha a che vedere con la necessità di sottolineare certe situazioni col dovere di denunciarle invece che nasconderle. Tutto il contrario. È in gioco proprio il valore e la sensibilità di un’istanza trattata secondo misure approssimative e sbrigative. La vergogna spesso va a braccetto con l’incapacità di affrontarla.

Basta interrompere il gioco se poi sono le stesse società a sentirsi condizionate dai gruppi del tifo organizzato, basta fermarsi per qualche minuto se tante volte abbiamo ascoltato gli allenatori dichiarare di non aver sentito, di non essersi accorti dei cori e di quello che dicevano. Perché fermare il gioco se sono gli stessi protagonisti in campo a dichiarare il falso? Perché sospendere la partita se il calcio stesso si dichiara secondo una grande falsa testimonianza? Basta con le mitigazioni dei vertici dirigenziali codini e ipocriti, basta con le frasi d’occasione delle tv e delle società. Basta col fingere intenzioni, basta con la simulazione della sensibilità. I coristi? Che cantino pure. Che una certa Italia si manifesti per quella che è. Almeno lo spudorato decoro di dirsi in fede. Una volta tanto.