Una tra le poche cose che mi hanno piacevolmente sorpreso nel commentario del dopo Napoli-Juventus, è stato un post pubblicato da una pagina Facebook intitolata “De André racconta la serie A”. Un’ironia sottile e intelligentissima versa col contagocce le parole soavi e “velenose” delle canzoni del maestro Faber per rilevare i momenti più significativi e singolari delle giornata di campionato. Del resto, quale maniera migliore di raccontare il calcio servendosi di strumenti che non siano il calcio. Un’osservanza piena e incondizionata alla norma letteraria del Rien va di Tommaso Landolfi, volendosi allontanare (fino a un certo punto allontanare) con aria bambina e spensierata dalla noia generale che, anche stavolta, non ha risparmiato sermoni protocollari sulla tattica, il gioco e ogni altra voce del dizionario tedioso sistematicamente consultato e riportato da questa insopportabile critica precostituita al gioco del calcio. Un calcio che, meglio ricordarlo, fa già tanta fatica a rendersi realmente “simpatico”, invece che ossequiosamente aderente ai diktat degli artifici mediatici.
Ecco che questo post di “De André racconta la serie A” credo riassuma con abilità citazionista uno tra gli aspetti più emblematici del “primo” Napoli-Juventus (di campionato), forse anche in prospettiva del secondo (la semifinale di ritorno di Coppa Italia).
“Di respirare la stessa aria dei secondini non ci va
E abbiamo deciso di imprigionarli
Durante l’ora di libertà”
Questi tre versi sono tratti da Storia di un impiegato, il concept scritto da Giuseppe Bentivoglio, Nicola Piovani e Fabrizio De André, cantato da quest’ultimo e prodotto nel 1973. Nello specifico, la canzone in questione è Nella mia ora di libertà.
Storia di un impiegato è un’opera poetica che descrive una complessa metafora politica sui rapporti tra l’uomo “civile” e il potere, tra il cittadino, la nomenclatura di Stato e le ambiguità (in certi casi ingenuità) dell’aneddotica sovversiva. In poche parole, una misura dettagliata dell’umanesimo represso e infelice del nostro tempo, nonostante questo album musicale sia stato scritto quasi mezzo secolo fa. L’autorità, l’obbedienza, la contestazione, le generazioni, i ruoli, tutto è contenuto dentro un’epopea nera che poco a poco si conduce quasi da sola alla coscienza della condanna, ma di una condanna, attenzione, che, senza implorare, riesce a scovare pure un barlume di dignità nella lucidità dei suoi ragionamenti e nell’amara serenità della sua condizione.
Curiosità. Quando uscì Storia di un impiegato, la critica generale fu molto severa e l’album fu “vittima” tanto dell’avventatezza di giudizio quanto dell’incomprensione. Soltanto vent’anni dopo, anche in virtù degli accadimenti che hanno cambiato tanto la storia d’Italia quanto quella di enormi equilibri internazionali, Storia di un impiegato da una parte di quella stessa critica è stato considerato tra i migliori album della produzione discografica di Fabrizio De André. E non si può far altro che essere d’accordo. Storia di un impiegato, anche attraverso una sorta di applicazione estensiva, ancora oggi parla di tutti noi. Complimenti a chi ha ideato quel post e a chi continua a “servirsi” di De André senza renderlo schiavo di qualcosa. A certi poeti, in questi anni, è accaduto anche questo, e nemmeno nella loro ora di libertà.
Tornando alla nostra citazione, quella della pagina in questione mi ha colpito, almeno rispetto alle mie personalissime suggestioni interpretative, per capirci, perché ha colto un aspetto venuto fuori tanto dall’intorno quanto dalla partita stessa. E non me ne vogliate se preferisco restare a quanto di più “letterario”, provocatorio, umanissimo, può venir fuori da cose come queste. Magari sarà soltanto una maniera per evitare di essere intrattenuti dal tedio e dalla noia di cui sopra.
Se la Juventus domina la scena calcistica nazionale, talvolta con le code polemiche che riguardano aspetti lontani dal terreno di gioco, in un campionato che da anni sembra votato a idoli speculativi e pragmatici, che forse il calcio lo hanno anche un po’ mandato a puttane (la prostituzione ha sviluppato una varietà di forme. E De André pure si questo non si è risparmiato), se questo simbolo, questo dato culturale, comprensivo di tutti i suoi aspetti, quelli utili a se stessi e quelli utili a chi vuole avversarli, allora le manifestazioni del pubblico napoletano e il contorno ad alto tasso di contestazione hanno mandato in scena una modalità spontanea, forse confusionaria, di contestazione, ma, soprattutto, è valso come tormento al “carnefice” soprattutto l’andamento della partita.

Chissà che la foto di Hamsik nel post di “De André racconta la serie A” non sia affatto casuale. La solita Juve capace di pungere con una sola azione, brava e naturalmente portata a riparare tra le mura altissime di una difensiva che ha fatto epoca, col Napoli tutto gioco e soluzioni, tutto fantasia e creatività, tutto se stesso, a cercare di scardinarne l’impianto difensivo. Fino a riuscirvi, con l’azione più bella della partita. Riuscendovi, sì, ma senza vincere, perché il potere puoi scoprirlo, ma non puoi sconfiggerlo. Almeno, però, al di là delle filosofie del risultato (legittime anche quelle), una squadra in forma di contestazione che per un’ora si è tolta lo sfizio di tormentare il secondino, “imprigionandolo durante l’ora di libertà”. Fuori? Fuori abbondano le storie di tanti impiegati, anche loro, probabilmente, alla ricerca della loro dignità, fino a quando, e qui nessuno sa dove inizi e finisca la verità, correranno a soccorrerli gli ultimi versi di questa canzone:
“Venite adesso alla prigione,
state a sentire sulla porta
la nostra ultima canzone
che vi ripete un’altra volta:
per quanto voi vi crediate assolti,
siete per sempre coinvolti”