Quando più di dodici anni fa, allo stadio San Paolo vidi giocare un giovanissimo centrocampista del Brescia con la maglia numero 17, restandone impressionato pensai che non mi sarebbe dispiaciuto di vederlo in quel Napoli poi destinato a tornare in serie A. Quella sera, quel giovanissimo centrocampista riuscì pure ad andare a segno, realizzando la sua prima rete in uno stadio che lo avrebbe visto battere il record assoluto di goal nella storia del Napoli. La società di De Laurentiis, durante il mercato estivo prima dell’inizio del campionato di calcio che avrebbe visto il Napoli ripresentarsi nella massima serie, acquistò quel calciatore che aveva impressionato non poco molti degli addetti ai lavori durante il suo campionato col Brescia. Alla prima gara al San Paolo, dove nell’annata precedente aveva segnato alla squadra che lo avrebbe acquistato, quella giovanissima scommessa, a coronamento di una grande prestazione, mise a segno uno tra i goal più belli di tutta la stagione. La sua prima rete con la maglia del Napoli nella sua prima partita in serie A in casacca azzurra nell’impianto di Fuorigrotta. 

Quando lo rividi giocare in quel Napoli-Sampdoria, mi ritornò in mente quello che avevo pensato mesi prima, sperando che a Napoli fosse finalmente ritornato un calciatore in grado di restituire a un ambiente che tanto aveva sofferto - retrocessioni, fallimenti, categorie minori - parole come storia, entusiasmo, attaccamento, simbolo. Insomma, il calcio nel suo più intenso e profondo significato. Quel calciatore che proprio in un altro Napoli-Sampdoria, ma di dodici anni dopo, avrebbe lasciato intendere il suo addio alla maglia dei suoi record, in un’improvvisa quanto spiazzante esplosione di malinconia, si chiama Marek Hamšík, per i napoletani Marechiaro, il nome del piccolo borgo del quartiere Posillipo dove si trova la celebre “Fenestella” che ha ispirato Salvatore Di Giacomo e Francesco Paolo Tosti per una delle canzoni più conosciute del panorama artistico partenopeo.

Il calcio espone le sensibilità a sollecitazioni destinate a restare insoddisfatte. Le attese sono un vicolo cieco, per cui, prima o poi, si finisce per chinare la testa e tornare indietro. Il pallone rende incompatibili esigenze e affezioni. Alcuni addii al calcio, perché di fatto Marek Hamsik andandosene in Cina lascia il calcio che conta, prendono la forma di grandi liquidazioni. Certi contratti stipulati con società delle quali si ignora l’esistenza assumono il valore di trattamenti di fine rapporto con quel grande datore di lavoro che è stato il gioco del pallone. Che questo rapporto si sia consumato con una o dieci maglie addosso per quell’esigenza non fa alcuna differenza. Un gelo che non va giudicato e né accolto con entusiasmo. Come il peso di quella ricchezza che aumenta se stessa. L’apice di un privilegio finanziario che contraddistingue una categoria. Un diritto lineare e in piena coerenza con le fasi del futbol a freddo. Il calcio, in fondo, è sempre stato qualcosa da vivere al momento, in un potente e precario apprezzamento dell’istante che è un’espressione a tratti violenta dell’estemporaneità. E oggi, quell’istante, come per Hamsik, può fare irruzione anche a stagione in corso, deponendosi a favore di quei mugugni frivoli e infantili che, di tanto in tanto, dicono di un Napoli rassegnato a se stesso.

Il tifo, l’appartenenza, o quelle parole citate all’inizio - storia, entusiasmo, attaccamento, simbolo - restano a prescindere, consegnandosi di mano in mano come un testimone in una perpetua staffetta. C’è chi correrà a lungo e chi per poco, chi lo farà bene e chi peggio, ma quello che anche a malapena sopravvive alle violazioni di accordi e contratti resta così com’è. Sia pur in maniera vissuta, logorata e stremata da quei momenti che non torneranno più. O, se ricapiteranno, lo faranno in modo diverso. E questo, forse, quelli come Marek Hamsik lo sanno bene. Allora, con o senza clamori, cedono in silenzio a quella norma superiore che mette il prosieguo delle cose a guida perpetua di quanto fino a un istante prima avevano realizzato, poco conta tutto il resto. Se anche la passione resta delusa e amareggiata dagli effetti di accordi che non sono i propri, se pure una tifoseria sopperisce da terza danneggiata facendosene una ragione, il tempo riserverà i nuovi volti delle gioie e delle amarezze, delle delusioni e delle soddisfazioni. Se Georges Braque amava la regola che corregge l’emozione, un vero tifoso sa di certo difendersi da tutto quanto attenti alla sua sensibilità insinuandosi come il più inopportuno degli intrusi. Del resto, i napoletani hanno dovuto sopportare l’addio di Maradona assistendo al distacco del Pibe come una triste parabola da fuggiasco. Nessuna festa, nessuna ultima partita, nessuna ultima prodezza. Via e basta.

Davanti a tutto questo quanto possono contare polemiche e discussioni sul mercato, sul come e quando sarebbe stato giusto per un calciatore andare via e su quanto ancora, invece, sarebbe stato giusto trattenerlo? Marek Hamsik ha avuto il suo saluto durante gli anni trascorsi a Napoli. Il bene gli si è manifestato attraverso una progressiva somministrazione popolare da parte di chi lo ha compreso e amato subito e da chi ha impiegato più tempo per farlo. E per i tifosi del Napoli, forse, non c’è soluzione migliore che credere che Marek Hamsik lo abbia percepito presto. Altrimenti, uno come lui, richiesto più volte da grandi squadre, non avrebbe scelto di restare all’ombra del Vesuvio quando la carriera avrebbe potuto riservargli ben altro, invece che un contratto milionario senza possibilità di nuovi successi. È vero che i calciatori guadagnano tanto, che spesso sono più professionisti che tifosi e che devono rispondere a sollecitazioni diverse da quelle di chi dal calcio niente riceve e niente guadagna. Tuttavia, è anche vero che i calciatori sono dentro la passione come gli eventi di noi stessi e intorno a noi stessi ce li traducono nel corso del tempo. Una formula del mito moderno che tra il sacro e il profano tinge di grazia e ridicolo quello che ci amareggia o ci rende felici oltremisura.

Marek Hamsik è il simbolo del frammento storico del Napoli rinvenuto dopo anni di fatiche e mortificazioni. Lo slovacco è l’uomo immagine di quel Napoli spesso contestato perché a ridosso della vittoria, ma, al tempo stesso, incapace di raggiungerla. Di quella gestione societaria mai oltre lo sforzo misurato, di quella squadra bella e indomita, ma con la delusione finale nel codice genetico. Le stesse critiche che sono state mosse ad Hamsik da quando ha maturato il suo ruolo nel Napoli. Eppure, i suoi dodici anni in maglia azzurra non detengono soltanto il record assoluto di presenze e di goal, ma il ritorno di certe aspirazioni. Con lui, fino a quando è stato possibile. Senza di lui, a sentirle e a coltivarle ancora di più. A questo servono quelli che restano a lungo: a dire che loro sono sì rimasti a lungo, ma quello che rappresentano resta per sempre.