Alle sei del pomeriggio, di ogni pomeriggio, in una fabbrica della Brianza suona la campana di fine turno. Si esce, si entra in macchina ancora con la tuta. C’è chi va a casa dalla famiglia, chi si ferma al bar. E c’è chi entra in una vecchia BMW, si accende una sigaretta, mette nello stereo una vecchia cassetta dei Black Sabbath e va al campo di allenamento, per giocare a pallone. È un giovane di ventidue anni che fa l’operaio da sempre, in fabbrica fino alla campana e in campo tre giorni a settimana più la partita della domenica. Il pallone è una passione, un divertimento. E nonostante lavorare e giocare fra i dilettanti non sia uno sforzo da poco lui continua a farlo, soprattutto perché gli piace. Senza pensare alla carriera, senza l’ossessione dei milioni. Così, come migliaia di altri ragazzi sparsi per un paese che da lontano è uno Stivale e da vicino è una scarpa coi tacchetti, i lacci chiusi col doppio nodo. Alla fine dell’allenamento una doccia, gli scherzi coi compagni, poi di nuovo nella vecchia BMW, un’altra sigaretta, e il play sulla cassetta che s’era fermata a metà di “War Pigs”. Il giorno dopo, di nuovo, tuta e fabbrica. Fino alla campana delle 18.

 

Quel ragazzo, però, non è solo appassionato: è pure bravo. Lo seguono in molti per fargli fare il salto di categoria. Che dai Dilettanti vuol dire Serie C o al meglio Serie B, vuol dire Verona, Lecce o Pro Vercelli. Lui non ci pensa, continua a giocare, a correre sulla fascia da terzino tutta corsa e niente piedi. Poi succede che proprio da Vercelli lo chiamano, per un’amichevole. È la partitella del giovedì di una grande di A. Anzi, di quella che storicamente è la grande. Lui arriva, e gli mettono addosso la maglia bianconera. Gioca, e bene. Il mister della grande di A lo guarda, gli parla, gli propone una settimana in prova. Lui prende 30 giorni dal lavoro, e va, e gioca bene, e torna, e aspetta un telegramma che non arriverà mai per un errore nella scrittura dell’indirizzo. Intanto gli rubano pure la BMW, cassetta dei Black Sabbath compresa. Il furto, e poi: una telefonata, la convocazione, la tuta d’operaio appesa al chiodo. È l’estate del 1992: Moreno Torricelli passa dalla Caratese alla Juventus di Trapattoni per 50 milioni. Firma il contratto in bianco, Boniperti scrive la cifra a penna: 80 milioni all’anno, più bonus. Con i primi guadagni compra una Lancia Thema. E una cassetta dei Black Sabbath.

 

Torricelli non ha mai negato il suo feeling con Trapattoni, l’uomo che gli ha permesso di fare il salto verso il grande calcio. Col mister parla in dialetto, e ripaga gli insegnamenti con cuore e polmoni. Da subito è titolare inamovibile della Juventus. E comincia a leggere il suo nome, fino a quel momento sconosciuto, accanto a quelli di Vialli, Ravanelli, Peruzzi, Baggio. Ecco, Baggio: fu proprio il codino a dargli il soprannome che l’ha accompagnato per tutta la carriera: Torricelli lavorava in fabbrica, era magazziniere in una falegnameria, facilissimo arrivare da questo a Geppetto. Era il primo giorno di ritiro quando Baggio lo ribattezzò, accogliendolo così in un gruppo di campioni che l’ha sempre trattato da pari a pari.

 

Il resto della carriera di Torricelli in bianconero è fatto soprattutto di successi, ma anche di momenti difficili. Dopo due anni, e la vittoria di una Coppa UEFA, il mentore Trap lascia la panchina a Lippi. Cambia pure la dirigenza, con l’arrivo di Moggi e compagnia. I primi mesi con il nuovo mister sono durissimi, e un giorno s’arriva alle parole grosse, perché Lippi è maniacale, e quella sigaretta fra le dita di Geppetto proprio non gli andava giù. Ma dopo quella sigaretta è tutto testa bassa e pedalare: l’ex operaio diventa una colonna di quella Juventus che, oltre ai tre scudetti, avrebbe vinto la Champions League, nella finale di Roma contro l’Ajax, probabilmente la miglior partita della sua carriera – e quell’incontro con Kluivert in attesa dell’antidoping, e l’attaccante olandese che lo guarda e ammicca: “T’hanno beccato, eh?”.

 

Arrivano, naturale conseguenza, anche le chiamate all’azzurro: convocato per la prima volta da Sacchi e per l’ultima da Zoff, vive da comprimario gli Europei inglesi e i Mondiali francesi. Prima volta con l’Italia da juventino, ultima da fiorentino: dopo sei anni e 230 partite a Torino, rifiuta il Middlesbrough per raggiungere il maestro Trapattoni sulle rive dell’Arno, e giocare altre quattro stagioni ad alti livelli, prima di ritrovarsi svincolato per il fallimento della Viola. Da lì sei mesi senza contratto, un anno e mezzo all’Espanyol e il ritorno in Toscana, ad Arezzo, per chiudere la carriera da giocatore. Dopo il ritiro, il sogno della panchina, interrotto solo per fare il padre a tempo pieno dopo la tragica scomparsa di Barbara, la donna della sua vita. Da qualche mese Torricelli è rientrato nel calcio: per ora lavora con i giovani, e fa l’osservatore alla ricerca di nuovi talenti. Da un campo all’altro, con una sigaretta fra le dita e nella testa un vecchio pezzo dei Black Sabbath.

 

Antonio Cristiano