Non credo che il calcio debba passare per le teorie dei paragoni. Benché la comparazione sia un’arte che si presta alla natura spicciola e sbrigativa delle cose, penso che il calcio sia un fenomeno troppo caotico per risolversi in una formula che stabilisca un qualche genere di graduatoria affidata agli aggiornamenti del tempo. Le epoche possiedono clessidre profonde ed Ettore è entrato nella mitologia da sconfitto.

Johan Cruijff non ha vinto il campionato del mondo, non ha vinto il campionato europeo, eppure è stato ed è giustamente considerato tra i più grandi calciatori di tutti i tempi. Aggiungerei, senza timore, che si debba considerarlo come un calciatore unico nel suo genere, inimitabile. Eppure, la sua Olanda è arrivata a un passo dalla gloria definitiva senza raggiungerla. Eusébio? Eppure, il suo Portogallo aveva tutte le carte in regola per poter vincere un titolo mondiale. E poi, aveva Eusébio, lui, un calciatore che ha incarnato il senso della grandezza.

Il paragone tra Maradona e Messi torna spesso alla ribalta ogni volta in cui il numero dieci del Barcellona si trova costretto a “vincere qualcosa” con la nazionale argentina. Negli ultimi tre anni, tre finali perse. Una mondiale sfumata ai tempi supplementari e due di Coppa America, entrambe destinate all’amarezza per mano del Cile tutto cuore e pragmatismo, capace di costringere gli argentini ai calci di rigore in tutte e due le occasioni. Leo Messi viene trascinato sul banco degli imputati ogni volta che la sua Argentina subisce una sconfitta. La sua presunta incapacità di vincere un titolo con la sua nazionale pare averlo condannato a un giudizio universale di eterne inferiorità nei confronti del numero dieci più celebre della storia del calcio. Messi, è chiaro, non è Maradona, ma non esserlo e non vincere un mondiale non significa che la sua figura debba essere relativizzata a un apprezzamento col segno meno prima del suo nome.

Percepire la grandezza di un calciatore corrotta dalle ingerenze dell’industrializzazione del futbol, che acuisce un meccanismo nato molto tempo fa, non vuol dire che le sue prodezze non debbano essere considerate straordinarie solo ed esclusivamente rispetto a se stesse. Spesso accade che chi rincorre di frequente un certo genere di paragoni, lo fa per preservare un’idea partitica del pallone, in cui la differenza tra una cosa e l’altra non risieda nella distinzione, ma nella necessità che la propria scala gerarchica sia garanzia di una supremazia. Osannare il più forte, portare la bandiera del più grande, per sentirsi sempre dalla parte della ragione. Eppure, farsi ossessionare da un paragone non significa altro che riconoscere una debolezza nella propria appartenenza. Messi è un calciatore straordinario, che con la sua nazionale ha segnato più goal di tutti gli altri attaccanti argentini, che ha contribuito in maniera decisiva anche a condurre l’Argentina in tre finali negli ultimi tre anni. Averle perse? Fa parte del calcio, uno sport in cui, a differenza di altri, il risultato è capace di tradire i valori effettivi dei contendenti. 

Leo Messi andrebbe guardato per quello che è, comprendendovi l’umano della sua reazione di voler lasciare la nazionale. Un grande calciatore, come altri grandi calciatori, uguale a se stesso e solo a se stesso, capace di cose meravigliose, ma pure caduto, come accade anche alla grandezza, nel divieto a un successo, magari sempre lo stesso. Il calcio, sia pur nella legittimità giustificata dalle possibilità di guadagno di questi atleti, troppo spesso fagocita i suoi eroi stordendoli tra l’esaltazione e il disonore. Pure l’ammirazione non merita attendibilità e maturità se non sa tenere conto della sconfitta. 

A proposito di Maradona. Al contrario di quanto molti sostengono, penso che il Pibe abbia insegnato qualcosa anche fuori dal campo di gioco, ivi compresi a chi teme che il calcio sovverta i rispettivi ordini privati (Maradona li ha sovvertiti tutti e ancora li sovverte senza che nessuno possa porvi rimedio). Prima e dopo le partite, lo faceva quasi sempre, aveva l’abitudine di elogiare i suoi avversari, chiunque essi fossero. Quando gli chiedevano di un potenziale rivale, o di un calciatore considerato talentuoso, lui ne parlava sempre con grande rispetto, talvolta anche con grande generosità di giudizio. Ecco, se il Pibe è l’unità di misura massima (valga per chi vuole considerarla tale), s’impari pure a estendere il principio a quella dimensione che troppo spesso guarda al calcio solo con la lente dei paragoni. A Mozart e a Beethoven, a Picasso e a Van Gogh, forse, non sono stati necessari. Nessuno sa dove riposino i loro spartiti e i loro pennelli. Di certo non infittiscono la barricata tra i tifosi degli uni o degli altri, piuttosto nell’ammirazione di chi sa goderseli e di chi ancora li rimpiange, ma senza cercarli altrove.