di Antonio Cristiano

 

Venite voi qui, io a Milano non ci vengo”. L'allenatore di provincia comincia ad interessarli dopo averli stupiti con la sua Lucchese, che nel campionato di Serie B 1990/1991 sfiora la Serie A (anche se, come ha sempre tenuto a sottolineare, “senza infortuni ci saremmo tranquillamente arrivati”). Eppure, all'interesse da quella risposta: ci si sarebbe aspettati un colossale vaffanculo, e invece dalla grande metropoli parte una Mercedes nera, che arriva nel piccolo campo di allenamento toscano. Dal macchinone scende una delegazione che vuole parlare con il mister, uno che raramente ha visto in Serie A ma che l'uomo che ha inventato il lessico calcistico chiama senza celia maestro, “il Maestro di Volpara”. “Mister, il presidente Pellegrini vuole lei per sostituire Trapattoni”, gli dicono i dirigenti dell'Inter. Lui li guarda, e quando gli propongono l'ingaggio dice, con orgoglio da vecchio compagno: “Vengo, ma voglio uno stipendio da operaio specializzato”. È l'estate del 1991: Corrado Orrico, dopo una vita in provincia, diventa l'allenatore dell'Inter.

 

Per molti è la risposta della Beneamata al sacchismo milanista: si vede un buon allenatore in serie minori, si gode pensando alla sua idea di calcio, si decide di portarlo meritocraticamente al palcoscenico importante. Ma l'Inter del '91 non è il Milan dell'87: non viene da tre annate così così con Liedholm in panchina, ma dagli anni di Trapattoni, dei tedeschi, dello scudetto dei record. Insomma, non è semplice. Orrico lo sa e ci va comunque, a Milano. Lascia perdere la marcatura a uomo trapattoniana e impone la zona, fa allenare Matthaus, Klinsmann, Berti e Zenga in una gabbia avveniristica, costruita ad Appiano per la modica cifra di trecento milioni, in cui la palla schizza come in un flipper ma che serve “ad affinare la tecnica, a sviluppare i riflessi, a velocizzare il gioco, a migliorare la condizione fisica”. Infine, impone il WM, il sistema, schema di gioco nato nell'Arsenal degli anni trenta e sviluppato dall'Italia di Pozzo. I tifosi sono scettici, e coniano per il nuovo mister un'espressione diventata proverbiale e che, ovviamente, può nascere solo a Milano: “Non mangerà il panettone”, dicono.

 

Orrico se ne frega e va per la sua strada: ha un ottimo rapporto con i giocatori, parla di arte con Klinsmann e di finanza con Matthaus (“che però non mi ascoltava mai”). Con Peppino Prisco, storico vicepresidente dell'Inter, parla una volta sola: è arrivato da poco a Milano, è in sede in attesa di incontrare il presidente, legge i giornali. L'avvocato passa, scorge Il Manifesto, gli chiede: “Lei legge quel giornale?”. Lui risponde: “Sì, perché? Per allenare l'Inter ci vuole la tessera della DC?”. Racconta l'episodio a Pellegrini, che gli dice: “Lei non lo sa, ma oggi si è fatto un nemico molto, molto pericoloso”.

 

L'Inter ha una filosofia di gioco, i calciatori sembrano capire di far parte di un calcio particolare, decidono di abbracciarlo e di proteggere strenuamente il Maestro di Volpara. Le malelingue dicono che è per la riduzione dei ritiri e l'indulgenza sulle diete, ma tutti, da Matthaus a Berti, si spendono per l'allenatore. Anche i tifosi, dopo lo scetticismo iniziale, cominciano a volergli bene. La squadra, però, non gira come dovrebbe. C'è bisogno di tempo per capire, per capirsi. Ma il tempo, per l'Inter, non c'è: si alternano partite belle e partite brutte, la difesa a volte balla troppo, troppe sconfitte, troppi pareggi. Il 19 gennaio 1992, alla diciassettesima di campionato, dopo l'1-0 subito a Bergamo dall'Atalanta, con la squadra a nove lunghezze dal Milan capolista (la vittoria vale ancora due punti) il mister dice basta. Colpa dei giocatori? “No, se me ne vado è solo per colpa mia”. “Per troppo amore si può sbagliare”, scrivono i tifosi interisti salutando il compagno di Volpara, quel Maestro di calcio che non ha mai digerito il panettone del Natale 1991.