di Elio Goka

 

Il 22 giugno 1986 Maradona corre sopra la diplomazia internazionale e risolve la crisi anglo argentina. Prima inganna l’arbitro e la corona inglese, segnando il gol irregolare più bello di sempre e poi, dopo pochi minuti, consegna al mondo la rotta del prodigio più incredibile che si sia mai visto sopra un campo di calcio.

 

Quel goal lo hanno descritto nessuno sa quanti cronisti, scrittori, disegnatori, artisti, attori, registi. Non sarebbe un azzardo inserirlo nella galleria delle più grandi opere della storia dell’uomo. Insieme alle grandi suite musicali, ai grandi dipinti, ai grandi romanzi, c’è il goal di Maradona contro l’Inghilterra. La trance agonistica, la guerra delle Malvine, la crisi diplomatica tra due paesi che per il controllo delle Folkland hanno impugnato le armi, l’antagonismo militare al cospetto dell’agonismo sportivo, in un muscolo planetario che è il campionato del mondo, di fronte non soltanto due squadre di calcio, ma due rivalità politiche e nazionali, due anime popolari, soprattutto quella argentina, ferita nell’orgoglio e nell'intimità dagli orrori della giunta di Videla, un campo di calcio e una partita che è nella storia già prima di essere giocata. In una parola, il calcio.

 

Maradona esegue il suo spartito scritto in segreto, all’insaputa dei suoi stessi compagni di squadra che, a rivederla quell’azione, sembrano rallentare a ogni passo più rapido del Pibe, sopraffatti da un momento che ha del miracoloso. È più importante guardarlo, memorizzarlo, quel miracolo, per sempre, più del parteciparvi, sia pur cercando di seguire qualcosa che è stato concepito nel più puro imprevisto. Il genio. E quel momento è così spiazzante per gli stessi argentini perché Maradona stesso rivelerà un retroscena della sua ispirazione. Dopo l’uno a zero segnato con la mano che toccò dio nell’invidia della torre di Babele, El Pibe de oro disse ai suoi compagni “Correte ad abbracciarmi, o l’arbitro non lo convaliderà”

 

 

Quei cinque minuti lanciano gli argentini verso la semifinale, dove è la sorpresa Belgio a farne le spese. Altri due capolavori del Diez firmano il 2-0 che spalanca le porte della finale alla nazionale biancoceleste.

 

Otto anni dopo il mondiale insanguinato di Buenos Aires, l’Argentina si appresta a disputare l’ultimo atto della Coppa del Mondo. Dall’altra parte la Germania dei colossi mitteleuropei. Schumacher, Matthaus, Breheme, Magath, Allofs, Rumenigge compongono una squadra tecnicamente e atleticamente superiore a quella dei sudamericani. Senza Maradona, forse, non ci sarebbe partita. La forza dell’Argentina, oltre che nella presenza del suo numero 10, è nel reparto offensivo. Valdano e Burruchaga sono due attaccanti di valore. Jorge Valdano, centravanti del Real Madrid, al 55’ offende l’orgoglio teutonico segnando il gol che sembra chiudere una partita in cui i tedeschi non riescono a trovare la via della rete. Dopo la segnatura di Brown, quella di Valdano, a poco più di quaranta minuti dal termine, avvicina la nazionale argentina al trionfo finale.

 

Se c’è una cosa che un secolo di calcio ha insegnato è che i tedeschi conoscono l’arte della sopravvivenza più di chiunque altro. Ai mondiali la Germania combatte come nessuno. Anche nei momenti di maggiore difficoltà c’è sempre qualcosa che li tiene vivi fino all’ultimo minuto. Succede lo stesso anche allo stadio Azteca, in una Città del Messico che non ha ancora realizzato di aver ospitato quella che per molti è l’edizione più bella della storia del Campionato del Mondo di calcio. In 15 minuti Rumenigge e Voller pareggiano il risultato. 2-2, quando mancano 10 minuti alla fine dei tempi regolamentari. Forse è la finale più emozionante che si sia vista nella massima competizione calcistica. 

 

Quando sembra che la Germania possa trovare da un momento all’altro il colpo della clamorosa rimonta, a pochi minuti dallo scadere interviene l’estro di colui che è il predestinato di quella manifestazione. Maradona non impiega cinque minuti come con l’Inghilterra, non si esalta in azioni spettacolari ed entusiasmanti, non paralizza i compagni nell’ammirazione, ma fa la cosa più utile tra gli strumenti del gioco del calcio. Sintetizzando il pensiero in un istante, uno solo, decisivo, raccoglie un pallone nel cerchio di centrocampo e, chiuso nella stretta marcatura dei tedeschi, con un assist perfetto e di difficile esecuzione lancia Burruchaga verso la porta avversaria. L’attaccante realizza battendo il portiere in uscita e l’Argentina è campione del mondo.

 

 

In quel mondiale c’è tutto. Il genio assoluto, grandi squadre, grandissimi calciatori, partite memorabili, la politica, l’irregolarità, la leadership di un solo uomo, la consacrazione. L’erba alta dell’Azteca e di altri campi di gioco che in quell’edizione quasi sembra voler nascondere i piedi dei calciatori, è stata calcata da un campionato del mondo che forse, ancora oggi, resta irripetibile, come ogni capolavoro.