Ci sono squadre e nazionali di calcio che hanno avuto la gloria, ma mai la vittoria. Che hanno meritato il mito, ma senza quello che va oltre il conforto per essere stati comunque grandi, nonostante la capitolazione, nonostante quel responso che nel calcio è insopportabile, scongiurato da chiunque non ha altro desiderio che la vittoria finale: il secondo posto. Nella storia della competizione più importante e prestigiosa per un calciatore, il Campionato del Mondo, ci sono state dimostrazioni di calcio battenti bandiere che hanno sfiorato successi che forse avrebbero anche meritato. Qualcuna si è disfatta dei suoi simboli antichi e recenti, un’altra non esiste più, dissolta in più paesi che adesso ne hanno delle nuove.

Cecoslovacchia, Ungheria e Olanda. Sette finali e zero vittorie. Più di un terzo di albo d’oro coi loro nomi relegati alla voce argento. Alcuni tra i più i grandi calciatori mai visti sopra un campo di calcio, allenatori geniali, idee e tattiche innovatrici, scuole che hanno fatto un’epoca non ancora tramontata, decenni di una letteratura del futbol che nemmeno alcune squadre vincenti sono riuscite nemmeno lontanamente a pareggiare. Eppure, nessun primo posto.

Fu nel 1934 che Old?ich Nejedlý conquistò le cronache del mondiale italiano arrivando primo nella classifica cannonieri e battendo in semifinale la Germania. La Cecoslovacchia dell’attaccante dello Sparta Praga si arrese in finale contro l’Italia di Gaita, Schiavio e Orsi. Eppure, quella squadra, con quel grande calciatore, era forse la migliore di quella edizione e la più forte del mondo in assoluto. Quattro anni dopo, in Francia, la nazionale italiana, reduce dal successo olimpico e dalla consacrazione internazionale, ebbe ragione in finale, allo stadio Colombes, dell’Ungheria di György Sárosi, che si sarebbe poi distinto anche come allenatore, vincendo lo scudetto alla guida della Juventus nella stagione 51\52.

Quelli prima della seconda guerra mondiale furono gli anni della più grande nazionale italiana, allenata da Vittorio Pozzo, capace di dominare la scena calcistica dell’ultimo atto del “primo calcio”, destinato poi a prepararsi cambiare e ad evolversi dopo il secondo conflitto mondiale, dalla fine degli anni ’40 in poi. E tra il 1954 e il 1962 Ungheria e Cecoslovacchia, tra le maggiori deluse dei decenni precedenti, non mancarono di contribuire alle evoluzioni di una disciplina sempre più incline a fondere filosofia, studio tattico e preparazione atletica.

Ferenc Puskás - Getty Images, Fantagazzetta

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Sándor Kocsis e Ferenc Puskás condussero la grande Ungheria, imbattuta da quattro anni, alla finale del Campionato del Mondo, a Berna, contro la Germania. Dopo otto minuti gli ungheresi erano già in vantaggio per 2-0. Quello che per molti sarebbe stato il risultato più scontato, nel più incredibile secondo tempo della storia del calcio si trasformò in quello che sarebbe passato alla storia come “Il miracolo di Berna”. La Germania, di gran lunga inferiore a quella che era riconosciuta unanimemente come la più grande selezione nazionale del mondo, riuscì a rimontare lo svantaggio ribaltando l’esito della partita. 3-2 e mondiale ai tedeschi. La squadra che aveva ridicolizzato gli inglesi, che aveva superato i russi, che aveva oscurato il Brasile, che aveva l’attaccante del grande Real Madrid e l’uomo simbolo del Barcellona di quegli anni, si era incredibilmente smarrito nel giro di mezz’ora, nel momento del dominio, nell’istante in cui il triplice fischio dell’arbitro avrebbe decretato il titolo consacrale di una squadra senza precedenti.

Nel 1962, in Cile, la Cecoslovacchia riuscì a raggiungere per la seconda volta la finale del mondiale, stavolta misurandosi al cospetto del Brasile di Garrincha e Vavá. Nulla poté l’organizzazione di gioco di una grande tradizione come quella cecoslovacca, davanti alla classe dei brasiliani. In quel mondiale ci fu la dimostrazione di quanto nel calcio potesse essere determinante il genio, la capacità di decidere le partite grazie al talento innato, a quella risorsa che viene direttamente da doti naturali. Il 1962 chiuse un cerchio pieno di amarezze per il calcio dell’Europa orientale. Due grandi compagini, una leggendaria, uscite sconfitte da quattro finali nel giro di 24 anni, di sei edizioni dove in mezzo erano passare le guerre, le rivoluzioni e gli eventi più tragici e drammatici del Novecento. Ungheresi e cecoslovacchi avevano dato molto al calcio, ma, nonostante la loro abilità e tradizione, non erano riusciti a vincere il trofeo più importante.

Nel 1974, invece, il mondo del pallone salutò il più grande paradosso della sua storia. Quella che forse è stata la più grande scuola calcistica della storia del calcio, per alcuni la più grande nazionale europea, per alcuni addirittura mondiale, non è riuscita a vincere la Coppa del Mondo. Nel 1974 e nel 1978 l’Olanda, soprannominata “Arancia meccanica”, si vide sconfiggere in due finali. Germania e Argentina le avversarie “giustiziere”. Nel 1974, in Germania, davanti ai tedeschi di Franz Anton Beckenbauer si presentò la più grande Olanda di sempre. Johan Cruyff, la leggenda, il 14, il leader per eccellenza, e poi Johnny Rep, Johan Neeskens, Ruud Krol, Rob Rensenbrink e tanti altri formavano la squadra che cambiò il modo di intendere, di giocare, di interpretare il gioco del calcio. Dagli anni ’70, anche grazie ai modelli tattici del grande Ajax (tre Coppe dei Campioni), il calcio olandese consegnò un protocollo tattico da cui molti altri allenatori avrebbero tratto spunto. Ancora la nozione “Olanda” è presente nel grande osservatorio tattico internazionale. Senza quel calcio, non sarebbe stato possibile ammirare il grande Barcellona e altre formazioni che hanno lasciato segni indelebili.

 Johan Cruyff - Getty Images, Fantagazzetta

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Dopo la confitta di Monaco di Baviera nel 1974, l’Olanda, stavolta senza Cruijff, dovette arrendersi, ancora in finale, contro l’Argentina del mondiale “della vergogna”, quello del 1978, macchiato dai crimini e dalle manipolazioni propagandistiche architettate dalla giunta militare del regime di Videla. Una finale contaminata da un arbitraggio molto discutibile, di fatto, danneggiò non poco il secondo tentativo degli olandesi in quello che sarebbe passata alla storia come la Coppa del Mondo sopra il sangue dei desaparecidos.

Nel 2010, in Sudafrica, un’altra Olanda, stavolta diversa ma pur sempre di grande qualità, ci ha riprovato in una finale dei mondiali in cui è stata costretta ad arrendersi a un goal nei tempi supplementari di Iniesta, a pochi minuti dallo scadere. La grande Spagna ha realizzato il suo sogno mondiale, ma la bandiera dell’Olanda, dopo tre finali perse, non è ancora riuscita a vedere i suoi colori nella casella primo posto di un albo d’oro dove la vittoria non sempre ha significato verità de merito. Ma il calcio è anche questo. 

Adesso la Cecoslovacchia non esiste più. Slovacchia e Repubblica Ceca sono gli Stati indipendenti che oggi contano su nazionali di calcio che non hanno la forza di tanti anni fa. Allo stesso modo, anche la grande nazionale di calcio ungherese non c’è più. L’Ungheria di oggi è una rappresentativa che non può contare su un organico di grande livello. Così come l’Olanda, che non parteciperà ai mondiali del 2018, una nazionale di calcio in grande crisi negli ultimi anni. Il calcio è attraversato dagli eventi come ogni altro fenomeno umano. In alcuni casi, però, certi cambiamenti vogliono dire anche rimpianti. Tuttavia, dopo è sempre più facile dirlo.