A dieci anni esatti dalla conquista della Champions League, punto cardine del leggendario triplete, l'ex allenatore dell'Inter Josè Mourinho ha voluto celebrare di nuovo quel traguardo attraverso le colonne della "Gazzetta dello Sport".

Triplete Inter, il ricordo di Mourinho

"Il meglio in carriera l’ho dato dove ero a casa, dove sentivo le emozioni del mio gruppo, dove sono stato al duecento per cento con il mio cuore: più una persona che un allenatore. Per questo a Madrid ero più felice di vivere la felicità degli altri - da Moratti all’ultimo dei magazzinieri - della mia stessa felicità: io una Champions l’avevo già vinta. Mi è capitato di pensare prima a me che agli altri: all’Inter, mai. Questo succede in una famiglia: quando diventi padre, capisci che c’è qualcuno più importate di te, e passi al secondo posto”.

“Finali? Quella di Coppa Italia non la volevo giocare: l’inno della Roma prima della partita, arrivai a provocare “Fermate la musica o ce ne andiamo”. A Siena avevo paura: sei giorni dopo c’era la grande finale, temevo non giocassero quella partita come una finale. Zero a zero al 45’, la Roma vinceva 2-0, nello spogliatoio un caldo tremendo, non capivo come aiutare la squadra a svoltare tatticamente. Fu molto dura, e non finiva più. Avevo detto: “Un giorno mi piacerebbe vincere un campionato all’ultima”. Quel giorno mi dissi: “Mai più””.

“L'addio di Ibra? Il casino successe prima, a Pasadena, il giorno dell’amichevole contro il Chelsea. Tormentone da giorni: “Ibra va al Barcellona, non va al Barcellona”, lui da super-professionista quale è giocò 45’, ma poi nello spogliatoio disse: “Vado, devo vincere la Champions”. I miei assistenti italiani erano morti - “Senza di lui sarà impossibile vincere” - i compagni non volevano perderlo. Ero preoccupato anche io, ma mi uscì così: “Magari tu vai e la vinciamo noi”. Ero stato un po’ pazzo, ma nello spogliatoio cambiò l’atmosfera. Poi dissi a Branca: “Se lui vuole andare a Barcellona, cerchiamo di prendere Eto’o”. Lui e Milito tatticamente potevano dare una diversità alla squadra”.

“Cosa portò Sneijder? Diversità tattica. Serviva qualcuno che legasse il centrocampo a due attaccanti dalla mobilità tremenda, lui era perfetto. A un certo punto non ci speravo più, ma la prima opzione era lui e Branca mi disse: “Non mollare, facciamo insieme pressione su Moratti”. Da quel giorno chiamai Moratti tutti i giorni: “Serve Wes, Wes, Wes””.

“Perché non tornai a Milano con la squadra? Perché se fossi tornato, con la squadra intorno e i tifosi che avrebbero cantato “José resta con noi”, forse non sarei più andato via. Io non avevo già firmato con il Real prima della finale: chi ha detto che qualcuno del Real venne nel nostro hotel prima della finale disse una cazzata. Prima della finale successe solo che scoprii lo scatolone con le maglie celebrative e scappai per non vederle. Io volevo andare al Real: mi voleva già l’anno prima, andai a casa di Moratti a dirglielo e lui mi fermò, “Non andare”. Al Real avevo già detto no quando ero al Chelsea, al Real non puoi dire no tre volte. Oggi forse potrei stare 4-5-6 anni nello stesso club, ma allora volevo essere il primo - e sono ancora l’unico, fra gli allenatori - ad aver vinto il titolo nazionale in Inghilterra, Italia e Spagna. Allora mi dissi: “Sto qui due giorni, firmo il contratto e vado a Milano quando non posso più tornare indietro””.

“Addio? Avevo deciso dopo la seconda semifinale con il Barcellona, perché sapevo che avrei vinto la Champions. Moratti l’avevo preparato: senza bisogno di parole, la temperatura del nostro abbraccio in campo gli fece capire cosa volevo. Mi disse: “Dopo questo, hai il diritto di andare”. Era il diritto di fare quello che volevo, non di essere felice: e infatti sono stato più felice a Milano che a Madrid”.

Materazzi? Marco era il simbolo della tristezza di tutti noi, e di quello che deve essere un giocatore di squadra. Quando la squadra aveva bisogno di lui - Chelsea, Roma, Siena - lui era lì. Io sono cattolico e credo a queste cose: forse è stato Dio a metterlo lì contro quel muro, come ultimo giocatore che ho visto: con lui, abbracciavo tutti i miei giocatori. E dico una cosa: mi fa molto strano che oggi uno come lui - da allenatore, direttore, magazziniere, autista, non so - non sia all’Inter”.

Josè Mourinho
(Getty)