Gennaro Gattuso ha analizzato a "Sky Sport" i suoi primi mesi da allenatore del Napoli, tra ambizioni e momenti amarcord: "Io da giocatore? Non dovevo mollare mai, dovevo lottare ed essere coerente. Così riuscivo ad avere la fiducia della squadra e dello spogliatoio. Sono migliorato col tempo, con voglia, passione e tanto lavoro. Ho dedicato più tempo al calcio che a me stesso. Ho sempre pensato di fare un gioco bello che poi è diventato il mio lavoro e non immaginavo di poter vincere due Champions, il Mondiale, di entrare nella storia del Milan con le presenze. Ma quando lavori e non molli i sogni si realizzano".

"Il primo poster che ho attaccato è stato quello di Bagni. Era uno dei pochi che giocava con il calzerotti abbassati, mi colpì. Con quel poster rovinai il muro con la colla e ci fu uno dei primi schiaffi di mia mamma".

"La carriera da calciatore mi ha aiutato per capire determinate dinamiche giornaliere, ma è totalmente diverso come lavoro. Non basta aver giocato a calcio, anche perché il gioco è cambiato tanto. Di me resta la grinta, è una caratteristica che mi porto dietro. Però è una grinta diversa, perché bisogna riflettere di più da allenatore e conoscere i giocatori dal punto di vista caratteriale. Inizialmente il mio errore era considerare i giocatori tutti uguali, ma ognuno è diverso ed ha una chiave di lettura diversa".

"Negli ultimi anni il calcio è cambiato tantissimo. Dieci anni fa vedevamo mezz'ora di spezzoni, oggi c'è il match analysis, telecamere fisse, si analizzano gli allenamenti. Ci sono tanti strumenti anche per valutare la condizione fisica di un giocatore. Oggi le rose sono composte da 25 giocatori, più lo staff, 15 fisioterapisti ed altri collaboratori. L'allenatore lavora con 70-80 persone, non è semplice e la bravura sta nel farsi capire subito. La squadra non è solo quella che scende in campo, ma anche tutto l'organico a contatto con i giocatori".

"Ancelotti è sempre stato un punto di riferimento, sia da giocatore che da allenatore. Lo rispetto tanto. È successo qualcosa di strano quando sono arrivato qui, ma mi ha lasciato una grande squadra e tuttora ci sentiamo. Quando i risultati non arrivano nel calcio paga l'allenatore, però la nostra amicizia non è minimamente cambiata. Se si prova ad imitare uno come lui si fanno solo danni, per come ha gestito e gestisce tutti. Ha questa dote incredibile di riuscire ad entrare nella testa dei giocatori da oltre 20 anni. Ad un certo punto siamo diventati padre e figlio, non più giocatore e allenatore e se ho realizzato quello che sono molti meriti sono suoi".

"Sapevo di arrivare in un grande club, che negli ultimi 7-8 anni è diventato tra i primi al mondo. Non mi aspettavo la chiamata di De Laurentiis, mi ha colpito. È stato un orgoglio e sono contento: allenare questi giocatori e lavorare in una città così mi dà carica e soddisfazione. Quando andrò via voglio essere ricordato per aver fatto cose importanti, per la mia voglia e serietà. Poi i giocatori devono essere gli idoli perché loro vanno in campo".