L’Inter ha perso la finale di Europa League. Ed era stata l’ultima squadra italiana a vincere un titolo europeo. Dieci anni fa, quella del triplete. In questi dieci anni il calcio italiano ha progressivamente sterzato verso una direzione sulla quale ci vorrebbe molto tempo per analizzare ragioni e risvolti (a dire il varo, ne La pressa di Hanta ci si è soffermati non poche volte sull’argomento). 

Resta il fatto che da dieci anni nessuna squadra italiana di club, tranne quella che aveva vinto la Champions nel 2010 e si era aggiudicata successivamente il Mondiale per Club, è stata in grado di conquistare un titolo continentale. Una pausa dalla gloria anomala e preoccupante per un paese a lungo abituato ad essere grande protagonista del calcio europeo. Del resto, la storia della nazionale italiana di questi dieci anni parla chiaro sulla qualità attuale del calcio peninsulare. 

Al di là di episodi controversi, ci sono stati anche quelli, che hanno condizionato non poche edizioni delle competizioni europee degli ultimi anni – il riferimento a molti arbitraggi che ancora invocano giustizia resta dovuto – l’elezione definitiva e incontrastata di club di Stato per la compagine che in questi anni ha fatto da padrona tra le mura nazionali è coincisa pure, processo anche questo dalle mille sfaccettature, con scelte di gestione tecnica che proprio in questa risoluzione d’emergenza delle edizioni 2020 hanno trovato coincidenze emblematiche e, chissà, alquanto significative. Tra cessioni, prestiti, contrasti e fughe, alcuni calciatori sono stati lasciati andare via con troppa leggerezza. Col senno di poi, è ovvio, tutto diventa più facile. Tuttavia, nel calcio i risultati finali sono il primo quoziente di verifica del lavoro svolto fino a quel momento. Qualche appunto va pur preso.

L’Inter, che per volontà di Conte non schiera Eriksen nell’undici iniziale per la finale col Siviglia – gli viene preferito Gagliardini – ha dovuto salutare Perisic e Icardi, entrambi finalisti di Champions League. I due calciatori di oggettiva e indiscutibile maggiore qualità del proprio organico salutati in nome di una ricostruzione di qualità, con tale qualità vantata in continuazione, pur senza capire come si possa costruire qualcosa di qualità rinunciando in partenza agli elementi di maggiore qualità. Discorso, pare, portato avanti fino al momento cruciale in cui un allenatore rinuncia all’uomo di migliore qualità, appunto, e di maggiore esperienza, relegandolo in panchina.

Il Milan, invece, ha lasciato partire Suso, vincitore dell’Europa League con la maglia del Siviglia e tra i protagonisti dell’ultima edizione, insieme al “vecchio” Banega, che pure aveva vissuto una breve parentesi con la maglia dell’Inter, anch’egli, forse, poco compreso. La Juve, qualche anno fa, aveva rinunciato a puntare su Coman, calciatore che, nonostante qualche infortunio di troppo, è stato in grado di ritagliarsi poco a poco uno spazio molto importante nell’organico del Bayern Monaco, finalista di Champions. Caso aveva voluto che dopo la cessione, Coman avesse segnato contro la Juve uno splendido goal nella partita degli ottavi di ritorno in cui i bavaresi avevano eliminato i bianconeri dopo una clamorosa rimonta nei minuti finali. 

Questi sono solo gli esempi più immediati e lampanti di un sistema di scelte e di gestione, al netto, chiaramente, di aspetti che non emergono in maniera immediata, che dovrebbe indurre il calcio italiano a porsi delle domande sulla sua reale capacità di intendere con reale perizia di aspetti tecnici, di calciatori, in una parola, di calcio. Forse tutto questo rientra in quella tensione ambigua e feroce, spigolosa e non sempre onesta con gli altri e con se stessa, fatta di lamentele, piagnistei, allusioni talvolta superflue, scusanti. Tutto a condimento di un calcio fatto di club, quasi tutti, che amano collezionare figurine da spot, calciatori prossimi alla “pensione”, per investimenti tecnici in dirittura di liquidazione, altro che della tanto sbandierata progettualità.

Forse il calcio italiano avrebbe bisogno di recuperare risorse che vanno oltre l’aspetto puramente economico. Entusiasmi, credibilità, un intendimento più gioviale e qualitativo del gioco, forza psicologica, identità, coraggio, pazienza (in Italia si ha una fretta isterica di pretendere risultati e vittorie). Tutte queste cose fanno realmente parte del calcio italiano? In Italia, in fondo, di calcio ce ne intendiamo ancora?