Arriverà un giorno in cui le squadre si stuferanno di palleggiare a tutti i costi davanti alla propria area di rigore? I goal subiti a causa di autentici regali agli avversari da portieri e difensori palleggiatori ormai non si contano più. Sembra che “l’uscita palla al piede” sia diventata un contrassegno senza il quale il proprio gioco non vanti un marchio, non sia da iscrivere alla lista del glamour futbol da sfoggiare come in un grande centro estetico. 

“Adesso sembra che i calciatori servano solo per dimostrare come sono bravi i loro allenatori.”
Massimiliano Allegri

Non gli si può dare torto, benché la sua "colpa" sia sempre stata quella di vivere nell’ombra di un non-gioco inviso a molti perché tremendamente speculare, ma, di fatto, emblema di una lunga dittatura calcistica che meriterebbe ben altre riflessioni (già fatte in questo blog). Tuttavia, l’adesione, ormai da parte di tutti, a questa idea del gioco come sviluppo costante di una manovra troppo spesso fine a se stessa - più utile all’avversario - dimostra un grande fraintendimento di fondo (il sarrismo è stata una breve e particolare eccezione e come tale dovrebbe essere intesa). Lo spettacolo del calcio e del gioco non possono essere subordinati a una cristallizzazione dei moduli e degli schemi. Il grande gioco è sovvertirli, talvolta interpretando quelli tradizionali e inserirne di nuovi. 

“A volte, da una palla lunga possono nascere situazioni interessanti”
Carlo Ancelotti

Il lancio lungo non è peccato, come non è peccato sventare un pericolo davanti alla propria area con un calcio al pallone, come non è peccato rinviare, come non è peccato sbrogliare la matassa senza fronzoli. Come si faceva quando il calcio italiano vantava il campionato più difficile del mondo. Erano anni di grandissimi fuoriclasse, veri fuoriclasse, non di certo come i campioni costruiti in laboratorio di oggi (a proposito di centri estetici), quando il pallone viaggiava veloce prima di tutto per evitare di prendere goal. Il calcio italiano aveva la scuola della difesa. Lo dicevano giornate di campionato con pochissimi goal e tanti 0-0. E non era per niente un pallone noioso. Anzi. L’emozione dettava momenti palpitanti e di grande agonismo. La qualità vinceva, era determinate, ma doveva affrontare la serietà delle cose, il rigore e il rispetto per la competizione di uno sport che veniva vissuto come una disciplina non spettacolarizzabile, ma, di fatto, di grande spettacolo.

Le grandi squadre di oggi?
Se il Bayern Monaco e le squadre che negli ultimi decenni hanno dominato le scene del calcio europeo si sono contraddistinte per spessori di gran lunga superiori a quelli delle italiane, la ragione va ricercata nella capacità di non aver smarrito l’elemento identitario, fedele, sì, alle proprie scuole, ma sempre in grado di leggere i momenti senza dimenticare gli aspetti fondamentali. Sergio Ramos ne ha rinviati di palloni in tribuna, così come Chelsea, Liverpool e Bayern Monaco hanno totalizzato qualità e utilitarismo nella loro costruzione tattica, spesso anche a prescindere dalle loro guide tecniche. Non a caso, per fare un esempio “europeo”, il Liverpool è uscito dalla Champions della scorsa edizione a causa di un disimpegno avventato, e inutile, del proprio portiere. E si potrebbe proseguire con esempi di situazioni che, a causa di giocate forzate e superflue, hanno generato autentici condizionamenti negativi su intere stagioni.

Molti allenatori italiani si stanno uniformando a un’ideologia dell’intendimento del gioco. Tutti vogliono fare la stessa cosa. Non si distingue più chi lotta per lo scudetto da chi lo fa per la salvezza. Ne scaturisce un decadimento che sta trasformando il calcio italiano in un monologo noioso e prevedibile. Un appiattimento che assorbe e deprime persino le migliori individualità. A volte, da un pallone sparacchiato alla bell’e meglio può iniziare una rivoluzione.