Ai malinconici

 

Ci sono stati grandi calciatori, anzi no, grandissimi calciatori, che sono finiti come nessuno avrebbe mai potuto immaginare quando sembravano dominare il mondo. Senza violarlo, senza fargli del male. Semplicemente, meravigliandolo.

C’è chi è finito a fare il clown nei circhi, chi si è ridotto così povero da non essere nemmeno riconosciuto, chi a vivere gli ultimi giorni in cliniche di recupero, altri a morire da soli. Dimenticati, pure da chi alle loro meraviglie aveva assistito. La tragedia umana è trasversale. Nel pallone sono morti grandi giocatori nelle prime linee, nei lager e negli smarrimenti della vita. Alcuni sono sopravvissuti abbastanza per dirci di stare attenti, per non finire come loro.

Quando il gioco del calcio era un luogo frequentato da uomini che si opponevano ai regimi e sapevano parlare al mondo che meravigliavano con le loro prodezze tanto quanto fossero in grado di fare col pallone, c’è stato un uomo, di mestiere grande, anzi no, grandissimo calciatore, che, attraversando tre decenni, ha stabilito record e conquistato vittorie che lo vorranno per sempre tra i più grandi. Si chiamava Gerhard Müller. È vissuto nell’epoca di Johan Cruijff, Franz Beckenbauer, Tostao e Rivelino; è vissuto nell’epoca di Pelè. È vissuto negli anni di Neeskens, Rensenbrink e Krol, di Paul Breitner, Ardiles e Rivera. E l’elenco sarebbe ancora lungo. 

Qui non c’entra la grandezza di un fuoriclasse, i suoi successi al Campionato del Mondo, a quello europeo, le tre Coppe dei Campioni, i primati e il suo genio. Nulla di tutto questo. Nemmeno i problemi con la dipendenza dall’alcol e l’Alzheimer che lo ha consumato fino a portarselo via. Qui c’entra tutta la dannata malinconia che allontana gli uomini dagli uomini. Quel brutto affare che non lascia comprendere come ci si senta a passare da uno stadio all’altro dell’esistenza senza che in fondo non si sia mai fatto del male a qualcuno. 

A Gerd Müller parlavano gli occhi. Diceva che “il goal è tutto”. Una volta ha pure detto che gli mancava tutto quello che gli permetteva di arrivarci alla cosa che sapeva fare meglio: quel goal che gli era valso l’appellativo del centravanti per eccellenza. Che le liturgie che lo avevano accompagnato nella sua lunga e incredibile carriera svanendo gli avevano tolto tutto e che si sentiva ancora inchiodato alla finale della Coppa del Mondo del 1974. “Quel giorno ero sul tetto del mondo. Ora sono nel buco del culo dell’inferno”.

Se non ci sei passato, non puoi capirlo. E forse è pure meglio lasciare da parte ogni immaginazione. Resta soltanto una cosa. Per alcuni uomini dotati di un talento straordinario doverne in qualche modo farne a meno, nonostante i successi, costa qualcosa che dev’essere davvero la peggiore compagnia che possa capitare. Pare che Müller guardasse con tenerezza i vecchi compagni che in qualche modo erano riusciti a trovare la loro serenità. Pure distanti dal terreno di gioco e guadagnandosi la vita lontani dal successo. La stessa tenerezza di quei compagni che, avendolo notato da solo, trasandato e in preda all’alcolismo, lo aiutarono a curarsi e a inserirsi nuovamente nel mondo del calcio per lavorare nel settore giovanile del Bayern Monaco. Fino a quel 2015 in cui fu la stessa società tedesca ad annunciare che Gerd era affetto dall’Alzheimer. Non è stato lasciato solo, lui che era nato nel 1945, in una Germania impoverita e distrutta da una guerra e da una terribile esperienza politica. 

Eppure, resta il sospetto che dentro di lui qualcosa lo avesse lasciato solo da quando non aveva più potuto fare la cosa che amava di più. Secoli e secoli di storia del pensiero e della sensibilità bastano a ricordare come quello struggimento dolce e amarissimo al tempo stesso violi la gloria e l’anonimato, la solitudine e l’amore per le cose in quell’oblio apparente dove qualcosa ci è in carico perché qualcos’altro è stato perduto per sempre. Someone Like You, canta Van Morrison.