Quando Mazzarri iniziò a impiegarlo, titolare per la prima volta nella seconda di campionato con la Fiorentina, Insigne fu la restituzione per l’addio di Lavezzi. Un nuovo beniamino stava per nascere in un Napoli che aveva lasciato andare via il Pocho e aveva riposto in Cavani le speranze di gloria. Affianco al Matador, Pandev, il veterano, e Lorenzo Insigne, il potenziale campione nato in casa e cresciuto sotto la guida di Zeman insieme a Immobile e Verratti, coi quali, anni dopo, avrebbe vinto il campionato europeo con la maglia della nazionale. 

L’addio di Insigne porta con sé quello che a suo tempo è stato un Napoli ancora giovane, col futuro davanti e le prime pretese di una tifoseria nuovamente calata nella possibilità di sognare qualcosa di straordinario, d’altri tempi.

Lorenzo Insigne lascia il Napoli dividendo la tifoseria sull’interrogativo se sia stato davvero quello che ci si aspettava. Chi gli ha voluto bene e chi lo ha apprezzato e chi, invece, non ha saputo o voluto accettare una presenza talvolta più imposta da ragioni di principio, da un’ostentazione e da una pretesa di avere per forza un capitano che fosse napoletano, che rispondesse a quell’antica necessità di avere qualcuno che capisse, che percepisse sogni e significati non limitati soltanto al terreno di gioco.

Insigne a volte c’è riuscito altre volte no. Il garbuglio degli ultimi anni, dal dopo Sarri all’ultima annata la cui bandierina è stata issata sopra un altipiano che non tutti hanno voglia e dovere di raggiungere, dice di un capitano in mezzo ad altri leader, di un napoletano in mezzo ad altri napoletani di adozione, di un calciatore bravo in mezzo a chi, forse, in alcuni frangenti è stato più bravo di lui.

Emergere per distinguersi non è stato sempre il suo risvolto. Nonostante tanti goal, tanti assist, tante gare giocate bene. Talvolta, l’errore gli è costato più del merito. Zeman gli ha dato il coraggio della giocata e Benitez gli ha trovato il luogo d’azione, il sentiero tattico consolidato sotto i dettami di Sarri e un Ancelotti che aveva tentato di liberarlo sia dalle briglie tattiche che, un po’ da se stesso. Insigne l’ha incontrato e affrontato tutto, il calcio che gli si era presentato in un modo quando era un ragazzino ed è diventato un altro quando, da adulto, ha dovuto fare i conti con qualcosa che irrimediabilmente giunge a bussare alle porte di tutti quelli ai quali si chiede di diventare grandi.

Un se stesso caricato di responsabilità prima sfuggite con l’alibi della giovinezza e poi ostinatamente difese con la giustificazione di una maturità in cui a consolidarsi sono state tanto le contraddizioni quanto il rimpianto di non aver colto certi momenti per cancellare tutti gli errori – e li commettiamo tutti, mai dimenticarlo – che hanno lasciato un segno che adesso vive in un ‘non mi è piaciuto’ avvalorato pure da colpe che non sono le sue. Non c’è da essere duri o severi, così come non bisogna abbandonarsi a patetismi di sorta. È una storia lunga dieci anni. A chi è bastata e a chi non basterà. 

Lorenzo Insigne ha pagato lo scotto di essere stato il capitano di un Napoli di valore, ma a volte troppo deludente, di una squadra che avrebbe potuto fare di più, ma troppe volte più vittima di se stessa che degli avversari.

Bando alle ipocrisie e alle sproporzioni. Se le parti avessero voluto, le cose sarebbero andate diversamente. La società forse ha voluto altro. Lui? Pure. Insigne resterà sempre il capitano di quello che sarebbe potuto accadere e che non è stato. Ci finiscono dentro le sue tante giocate straordinarie, il suo carattere e il suo temperamento a volte un po’ umorale. Artefice e parafulmine. Magari più pronto al principio che alla fine.

Ma nel calcio, prima o poi, gli addii arrivano inesorabili e spietati. E pensare che altri capitani prima di lui (e che capitani!) non hanno nemmeno potuto salutare come avrebbero meritato. Chissà, è probabile che ci sono luoghi dove bisogna capire che il bene è durante. Napoli è tra questi. Il dopo è una questione intima.