C’è stato un tempo in cui le telecronache erano spartiti. C’è stato un tempo in cui in tv lo sport si accoppiava con la letteratura. Gianni Clerici ha suonato una lunga e appassionata serenata al gioco del tennis. Lo ha fatto dopo averci giocato. Senza grande successo - da giocatore, sia ben chiaro -, ma di certo comprendendone l’essenza fino in fondo. Migliaia di articoli e decine di libri dedicati all’elemento principe dello sport. L’epica interiore in prestito alla precarietà dell’esteriorità. 

Con Rino Tommasi gli scambi dialettici pareggiavano, talvolta superandoli, quelli in campo. E Gianni Clerici sfoderava la parola come i migliori tennisti avrebbero fatto col rovescio. È una regola antica, quella per cui le grandi cose si vanno a mettere dove le difficoltà sembrano semplici. L’esecuzione della classe. Quella di quando nessuno gli volle credere quando segnalò che Sampras sarebbe diventato un grande campione. Oppure quella di quando si divertiva a coniare parole e neologismi al cospetto del gioco che amava di più. Autorizzato da se stesso ora per irriderlo, ora per innalzarlo. Con la più intelligente delle confidenze. 

Gianni Clerici era uno che si arrabbiava se un regista perdeva la giocata sopraffina. La sua intolleranza era per la disattenzione al dettaglio. Il “Dottor Divago”, come lo soprannominava Tommasi. Ma le sue erano divagazioni sospese tra l’avvenuto e quello che sarebbe capitato. Di lì a poco o più avanti nel tempo. Veggenza e perizia, due arti e un dritto solo.

Erba rossa”, come il titolo di uno dei suoi romanzi. Il suo racconto in tempo reale era erba rossa. Raffinato e sottile come i fili di Wimbledon, tagliente e lucido come la devozione a un gioco giocato nella solitudine dell’atleta. 

A Gianni Clerici si può pensare dedicando alla sua carriera di scrittore e cronista rievocando quello che per intero essa merita fino in fondo: “circoletto rosso”. Come amava dire quando il punto del tennista proveniva da un colpo di rara bellezza.