De Laurentiis non esulta più come una volta. Una cosa che non si legge mai. Il ciclostile l’ha trascurata. Forse, l’avrà ritenuta superflua. Sono le porte spalancate a un’epoca che rischia di indebolire gli entusiasmi. Quindi, che tutto sia dedito al calcolo e alla scienza. Questo Napoli ne è vittima. Soprattutto, di se stesso.

Che c’entra il fatto che Aurelio De Laurentiis non sorrida più come i primi anni a Napoli? C’entra più di quanto si possa immaginare. Fino a un certo punto, è stato quello che esultava più di tutti. Lo ha fatto fino a quando ha capito che lo slancio potesse sopportare un limite. È scattato dal suo posto in tribuna afferrando il braccio del suo vicino fino a quando ha creduto che amministrare – in maniera egregia, va detto – potesse coincidere coi sentieri del sogno. Gli è bastato Mazzarri, quando il Napoli faceva valere da Champions calciatori provenienti dalla C.

Gli sono bastati tre calciatori straordinari, due dei quali sacrificati per far posto all’inizio di un’idea nuova che, però, non avrebbe potuto più farsi bastare il conforto dell’amministrazione e basta. L’arrivo di Rafa Benitez, l’allenatore che nell’era post fallimento ha inciso più di tutti sul piano tecnico – soffermarsi per l’ennesima volta a spiegare perché sarebbe superfluo, perché chi lo vuol capire lo capisce e chi si rifiuta, pazienza –, ha decretato il passo più lungo da compiere con leve alte, ma non ancora abbastanza. E allora, il sorriso di De Laurentiis è diventato poco a poco più cauto, relativamente prudente, ma sempre con l’aria spavalda di chi pareva voler cambiare certe cose, prima di tutto in casa propria. Insigne si stava facendo grande e qualcun altro ancora più grande. Inevitabilmente, a discapito di chi da lì a poco sarebbe stato riconosciuto come ormai invecchiato. 

Poi, la risoluzione con Benitez ha svelato l’arcano di un senso della progettazione troppo fine a se stesso. Un tentativo di sviluppo che non ha mai guardato fuori. Chiamare chi era sempre stato abituato a farlo, per certi aspetti, ha ridotto ancora di più esultanze e sorrisi. 

L’approdo di Sarri, inaspettatamente, perché nessuno ci avrebbe scommesso, ha recuperato le briglie del sogno e ha veleggiato nuovamente facendosi bastare, si fa per dire, l’eredità del suo predecessore. Una parte sarebbe stata, poi, nuovamente sacrificata per lasciar posto a nuovi gradi di gioventù, anch’essi dentro l’antidoto di un progetto solo da annunciare. Intanto, Insigne si faceva ancora più grande, mentre altri calciatori lo diventavano sempre di più nella sorpresa e nel piacere generali. Due volte vicini allo scudetto. Nella seconda occasione le vecchie esultanze di De Laurentiis erano ormai un lontano ricordo. Squadra e allenatore facevano la loro storia, breve e compressa come per un secolo durato un giorno, talmente inchiodata all’ossessione del sogno da rivelarsi persino dannosa, in un postumo delle cose per le quali la presidenza non si era nemmeno spesa in uno sfogo post partita come aveva fatto in seguito allo scandaloso arbitraggio di un Napoli-Dnipro che aveva messo la prima lapide sul tentativo di un’impresa, già allora, frutto dell’ostinatezza di un allenatore, invece che di una reale volontà della società di arrivare alla vittoria.

“Noi percorriamo l’Europa League solo perché la vittoria ci darebbe l’accesso diretto alla Champions”
Aurelio De Laurentiis dopo Napoli-Dnipro

Per il dopo Sarri, l’arrivo di Ancelotti avrebbe dovuto funzionare da ritorno al sorriso per un presidente che aveva fortemente voluto ricominciare in grande stile, affidandosi al blasone di un professionista, d’accordo, ma dimenticando che nessun allenatore vale i suoi successi senza i calciatori che vanno in campo per raggiungerli. Quindi, tra qualche richiesta soddisfatta e qualche altra, non da poco, delusa, il rapporto con “Re Carlo” si è ripiegato presto tra le crepe, ancora una volta, di un’incompiutezza imputabile, stavolta, non solo alle scelte delle società, ma pure a un ambiente diventato, a suo modo, adulto. Più che grande, adulto. Senza più sogni e senza più voglia di farseli bastare. Insigne s’è fatto capitano trentenne, Mertens aveva battuto tutti i record, Hamsik e Albiol erano andati via in silenzio, quasi all’improvviso, Maggio era stato salutato senza nemmeno un minuto in campo nell’ultima partita e tante altre incuranze avevano rivelato l’assenza di una gioia collettiva rinnovabile per qualche tempo solo con l’arrivo di un nuovo allenatore. E con Gattuso il medicinale, sia pur poco a poco, aveva sortito i suoi effetti. Tuttavia, fino al loro esaurimento.

Intanto, i suddetti entusiasmi di De Laurentiis erano definitivamente scomparsi, afflitti e affondati dentro un ammutinamento subito da assente. Tutta l’autorevolezza del padrone esautorata in contumacia. 
Gli anni trascorsi nell’ostinazione di predicare la parola progetto nell’aula dei desideri e di adottare i desideri per convincere i progettisti, hanno consegnato il conto. Nessun fallimento, nessun disastro, come molti urlano da tempo. Solo un lungo periodo destinato a uno spreco di fondo, per qualcosa che avrebbe potuto raggiungere livelli ancora più alti. Chissà, livelli che avrebbero infranto la barriera del sogno. Tuttavia, il conflitto di cui sopra ha allevato le più insidiose contraddizioni.   

È stato in questo conflitto in cui le procure e i contratti di Hysaj, Mario Rui, Maksimovic et cetera hanno fatto i capricci senza mai capire quanto valesse la loro permanenza e quanto, invece, la loro cessione. Ed è stato in questo in cui gli infortuni di Ghoulam e Malcuit hanno fornito al Napoli l’illusione di un recupero di due ottimi calciatori, ma, come per qualcun altro, si sono rivelati solo numeri sotto contratto. È stato in queste contraddizioni in cui Milik e Llorente sono diventati due paradossi, mentre la parte consistente del Napoli del patto era andata disgregandosi senza che De Laurentiis riuscisse a monetizzarla come aveva saputo fare con quella di Mazzarri. È stato in tutto questo in cui Gattuso è l’ennesimo episodio di tentennamento di rinnovo e di scarsa garanzia di continuità.

Attenzione, non è solo colpa di De Laurentiis se questo Napoli si tiene stretti i suoi vizi peggiori. La colpa è di tutto quello che ci è cresciuto dentro. Pure all’esterno. In linea con le imposizioni del calcio degli ultimi anni. Così come la tifoseria ha ceduto alla filosofia della pretesa del successo a tutti i costi. Dei felici e speranzosi intermezzi hanno tenuto insieme qualcosa che, probabilmente, non sa stare più insieme come prima. Perché non esulta più, perché di tanto in tanto entra in conflitto con se stesso senza rivelarlo. Nella speranza che qualcuno non finisca come una volta ha scritto Dávila, “finiti col vergognarci di aver condiviso un entusiasmo collettivo”.