Ci sono un italiano, uno statunitense e un qatariota. Non è una barzelletta, ma una storia di sogni di salti e velocità. Difficile immaginare un sogno tradotto in sforzi brevissimi dietro i quali si nascondono anni e anni di sacrifici. La gloria “breve” è costellata di inciampi e di imprevisti, di drammi personali e di arrendevolezze. Non è un segreto che l’unica regola sia quella di superarli quando arrivano senza lasciare scelta. E allora l’immaginazione si fa ancora più difficile.  

Succede che si arriva a guardarsi per decidere se dovrà essere decretato un solo vincitore o se ci si spartirà il sogno. Ma quel sogno non è divisibile. Resta uno solo, con tutto il suo spazio sconfinato che ai più generosi garantisce che niente potrà turbare la loro felicità. Anzi, “due è meglio di uno”. Il primo posto non è più l’esclusiva di un uomo solo, con l’amarezza per un altro e una vittoria che “ha uno strano modo di sorridere”, ma è l’assegnazione del merito con maggior rispetto. E la gioia si fa più generosa. Nessuno ne esce giustiziato e il sacrificio accorda cuore e cervello per superare il significato del ruolo per cui si è là e privilegiare quello di uomo. Non più atleta, non più la lotta, ma il grado più nobile di umanità.

Tamberi e Barshim sono due nomi destinati ad essere ricordati per sempre insieme. Guai a separarli, guai a violare l’immagine di quel patto tra uomini prima feriti dalla stessa paura di non poter più tornare a gareggiare e poi riuniti e appaiati dentro la stessa rivincita col destino. Magari, un giorno Tamberi Barshim sarà la formula della comprensione reciproca nella disinvoltura della felicità. L’essenza del gioco. Quello serio, quello che forse rischia sempre di più di essere perduto. 

Pochi minuti dopo, come non fosse bastato quel momento che ha stretto a sé tutta un’Olimpiade, un altro atleta ha portato una vittoria senza precedenti sotto una bandiera che nella sua storia ha goduto di rarissimi momenti di quel genere di velocità. I cento metri piani a un italiano? Non si è mai visto. E forse non sarebbe mai accaduto se per quella bandiera non avesse corso Lamont Marcell Jacobs, un ragazzo dal nome esotico e cinematografico, nato a El Paso, nel Texas di confine, e cresciuto in Italia col destino di regalare il suo talento a una soddisfazione quasi senza speranza. Eppure, è successo che un italiano ha vinto la gara più prestigiosa dell’atletica nella competizione più prestigiosa al mondo. 

Getty images
Getty images

Un’Olimpiade dove Paltrinieri, grande nuotatore, conquista un argento sorprendendo il mondo e se stesso, perché la vigilia di questi giochi non gli aveva riservato la possibilità di prepararsi serenamente, ma la necessità di curarsi a causa di una malattia. Difficoltà affrontate anche da Vanessa Ferrari (cinque interventi chirurgici e la rottura del tendine di Achille), che ha conquistato un argento nella ginnastica artistica che nel corpo libero mancava da quasi un secolo. Anche lì, oltre ogni pronostico, il sogno della felicità sopra ogni calcolo. Lo stesso realizzato da Alessandro Sibilio, arrivato fino alla finale dei 400 metri a ostacoli, anche lui sorpreso da se stesso, anche lui oltre ogni immaginazione. 

Sono le imprese di seconda mano, figlie dei sogni di seconda mano. Quelli poco pagati e molto sudati. Una retorica talmente retorica da essere nuda e cruda come si vede. Anzi, come si può immaginare. Perché, in fondo, resta qualcosa che si può capire solo se ci si sta dentro. Sono le ragioni per le quali i Tamberi ancora saltano, i Jacobs spuntano all’improvviso per realizzare i più gioiosi imprevisti e i Mutaz Barshim dicono che non è necessario sentirsi grandi da soli, ma che insieme all’avversario è ancora più bello. Un’Olimpiade che vale l’Olimpiade.