Carlo Ancelotti e Jurgen Klopp. Due habitué per la partita dell’anno. Perché la finale di Champions League è la partita dell’anno. Il tecnico di Reggiolo manco a dirlo. Da calciatore ne ha vinte due, da allenatore tre. Frequentatore di finali come pochi. Di fatto, come nessuno. Il suo è un rapporto speciale con quel trofeo che ha una confidenzialità interdetta ai molti e severamente riservata ai pochi.

E per Carlo Ancelotti ritrovare il Liverpool significa riprovare una vertigine sperimentata pochi anni fa, prima nella disfatta e poi nella rivincita. La rimonta più clamorosa in una finale di Champions e il riscatto a due edizioni di distanza. 2005 e 2007. Un ponte storico breve e lunghissimo.

Klopp, invece, guiderà l’ennesima finale dei reds e assisterà alla sua quarta da allenatore. Le due delusioni, con Borussia prima e Liverpool poi, hanno preceduto il suo primo trionfo registrato nella stagione 2018\2019, alla guida dei rossi d’Inghilterra contro la sorpresa Tottenham. E per il Liverpool fu la sesta, mentre per Klopp la prima.

Adesso che Ancelotti ritrova il suo avversario storico di Champions alla guida del suo Real ormai altrettanto storico, la finale di Parigi dice di due club che insieme fanno 19 titoli della massima competizione continentale e 23 finali in tutto. La storia della Champions League in una partita sola.

Sembra un segno del destino che a confrontarsi siano due allenatori così diversi e così vicini. Da una parte, una leggenda. Quell’Ancelotti che alcuni davano per finito e che, invece, non sembra volersi fermare a scrivere un palmares che da allenatore rischia di diventare qualcosa di irraggiungibile, a dispetto di chi allude in malafede a comode guide perché al comando di grandi squadre. Dall’altra parte, un mister che negli anni ha saputo dimostrare di essere un progettista di squadre fortissime. Prima il percorso con il Borussia Dortmund e poi quello con il Liverpool. Entrambi caratterizzati da successi e da stagioni memorabili. Sempre con la pazienza del disegnatore di sogni. Comunicazione e carisma, ironia e astuzia tattica, capacità di compenetrazione e leggerezza. Tutto questo in dotazione a entrambi. 

Il Real gioca come da Real. Duttilità tattica e imprevedibilità sono i capisaldi del gioco di un Ancelotti che a Madrid ha ritrovato quello che lui stesso ha definito come qualcosa che è nel codice genetico di questa squadra. In combinazione con la classe di Modric e Benzema e il talento di giocatori emergenti sulla carta, ma già maturi per scenari di altissimo livello.
Camavinga, Rodrygo, Vinícius Júnior, sono alcuni dei giovani “maturi” di un organico in cui Éder Militão e Alaba hanno nel tempo aggiunto equilibrio ed esperienza, sia pur con anagrafiche e provenienze diverse. Tutto impiantato addosso alle certezze che portano il nome di Casemiro, Carvajal e di quel resto di Real che per qualche anno sembrava essersi perduto, ma che stava soltanto rielaborando un assetto in attesa di nuovi entusiasmi e diverse soluzioni.

Il Liverpool è invece l’immagine della filosofia Klopp, il teorico del calcio contemporaneo, interprete di quel gegenpressing che non sembra consumare una macchina in grado di sostenere ogni competizione possibile. Anche le più logoranti. Il come andrà a finire non scalfisce l’umore e l’abnegazione di un allenatore che sembra in grado di farsi riconoscere ovunque. L’importante è arrivare fino in fondo. Perché quel modo di affrontare il calcio assume i tratti di una visione delle cose. A tratti gioiosa. Come, forse, dovrebbe essere.

E allora il marchio, Sadio Mane Salah Firmino, con quella che ormai è una tradizione che porta i nomi di  Alexander-Arnold, Robertson, Henderson, solo per citarne alcuni, rischia di diventare una di quelle formazioni che la storia impone di imparare a memoria. Per adesso, però, la parola memoria sarà dedita a una finale potenzialmente memorabile.