La sonora sconfitta dell’europeo del 2012 reclama ancora un riscatto per cui non può bastare la piccola rivincita ottenuta agli ottavi di Euro 2016. Stavolta, per l’Italia, l’occasione di una rivincita sui rivali spagnoli vale l’accesso alla finale del campionato europeo. Un risultato sotto sotto sperato, costruito, a cui squadra e allenatore hanno creduto sin dalle qualificazioni. Un’Italia rinnovata, riproposta secondo canoni nuovi, in parte inediti, e, di fatto, assolutamente performante.

La Spagna di Luis Enrique non è quella del “Siglo de Oro” che ha visto le furie rosse trionfare una volta nel campionato del mondo e due volte consecutive in quello europeo. Il quinquennio glorioso di una tra le selezioni nazionali più forti della storia del calcio adesso non può trovare riscontro in una squadra che ha le carte in regola per potersi aggiudicare il titolo, ma non è quella che potrà farlo dominando gli avversari. La fatica per arrivare in semifinale è stata dura e l’approdo nella sfida con l’Italia è stato caratterizzato da sofferenza e, forse, anche da un pizzico di buona sorte.

Tuttavia, la Spagna resta la Spagna. Lo dice il fatto che sia comunque arrivata a giocarsi la possibilità di giungere in fondo e un organico di calciatori meno titolati di quelli che fino a pochi anni fa avevano scritto pagine importanti nella storia del futbol. A guidare gli spagnoli c’è un allenatore dalla carriera fino a questo momento segnata dall’imprevedibilità. Luis Enrique Martínez García ha fatto registrare i suoi più grandi successi quando in pochi se lo sarebbero aspettati. Mister dell’ultimo grande Barcellona, si è ritrovato a puntare sulla possibilità di riportare in alto la nazionale spagnola in una stagione di transizione e di rinnovo al tempo stesso. Lui, il Luis Enrique che per ragioni personali ha dovuto rinunciare al calcio in un periodo della sua vita che lo aveva messo a dura prova a causa di drammatiche vicende familiari.

Il 4-3-3 dell’allenatore ex Barcellona lo conoscono tutti. Fedele allo statuto che negli anni ha consolidato una filosofia di gioco in grado di portare al successo il calcio spagnolo sia come nazionale che come squadre di club, con le opportune varianti che caratterizzano le singole realtà, la ricerca e l’applicazione della qualità resta il tratto distintivo di un undici che, però, pecca di mancanza di equilibrio. I quattro gol subiti tra Croazia e Svizzera e la qualificazione non proprio spedita nel girone eliminatorio lo testimoniano.

In attacco, Morata, Oyarzabal e Sarabia costituiscono un reparto, supportato anche da altri elementi di spicco come Moreno, Traoré e Ferrán Torres, a cui non mancano le soluzioni (probabilmente, il reparto offensivo più duttile proprio insieme a quello dell’Italia). La mediana alterna una linea verde talentuosa alla presenza della vecchia guardia rappresentata da Thiago Alcántara e Sergio Busquets. Koke e Pedri, almeno stando alle ultime uscite, sembrano i preferiti per completare la linea a tre con Busquets. La qualità di Fabian Ruiz e Dani Olmo assicura una valida alternativa.

La linea difensiva vede Jordi Alba e César Azpilicueta, quest’ultimo fresco campione d’Europa col Chelsea, i fluidificanti che spingono nei raddoppi offensivi a supporto dei centrocampisti. Senza più Ramos e Piquet, tocca ai Pau Torres e Laporte garantire la marcatura delle zone centrali.

Le ipotesi sul confronto tattico tra la nazionale di Mancini e gli spagnoli sfiorano il gusto della creatività. L’Italia gioca con due trequartisti esterni a sostegno di una punta centrale. In fondo, un sistema di gioco non lontano da quello di Luis Enrique. Le due linee difensive a quattro, entrambe votate alla spinta dei terzini (l’assenza di Spinazzola per l’Italia è un problema non da poco) e due mediane rapide e ragionate caratterizzano entrambe le formazioni. In qualcosa si rassomigliano. Si vedrà cosa sarà a prevalere tra le somiglianze o, e questo è tutto da scoprire, tra le differenze.