Dicono che questa sia una civiltà che ha cambiato stato. Il passaggio è avvenuto verso quello liquido. Sono liquidi i partiti politici, le tendenze sessuali, le condizioni di lavoro e, pare, anche i sentimenti. Volendo darsi una spiegazione si potrebbe pensare che la metafora fisica potrebbe avere pure un fondo di verità, ma che in fondo tutto diventa secondario se ognuno si scava dentro e inizia a guardarle in faccia le cose che si porta lì, in quel dentro che non sempre conviene scoperchiare. Perché le ragioni sarebbero più granitiche della pietra, impossibili da penetrare per quella liquidità che tanto si sparge a dispetto di ogni cosa vorrebbe resisterle anche per il semplice gusto di continuare a restare più a lungo com’è.

Allora succede che pure i sentimenti non si riescono a imbrigliare dentro i nuovi dettami per cui nel calcio “non esistono più bandiere” oppure “non vale più la pena di affezionarsi”. E allora per cosa vale davvero la pena di continuare a credere e a soffrire nell’attesa che qualcosa arrivi a rinverdire quella quinta luminosa e discreta che fu dell’infanzia e della prima giovinezza? A riscoprire che valeva la pena affezionarsi sopra ogni questione di principio, sopra ogni tentazione tesa a rendere ideologica qualunque cosa, pure la felicità.

E allora perché non affezionarsi pure a chi va via quando fino a poco tempo fa chiunque avrebbe scommesso sulla sua permanenza? Allora perché non affezionarsi a chi coi fatti ha dimostrato di aver capito chi c’è dietro una bandiera e un coro che da certe parti durano da secoli e non hanno alcuna intenzione di mediare passaggi di stato e di consegna? Allora perché non fare propria quella frase chiara e semplice che andrà sempre bene quando tra nessuno sa tra quanto tempo si ripenserà al Napoli di Kvara e Osimhen, di Giovanni Di Lorenzo e di una squadra di ragazzi uomini maturati in fretta all’ombra di un’impresa dove loro sono stati la luce e nemmeno se ne sono accorti?

Allora perché non confessare di essersi affezionati anche adesso che la realtà dice chiaramente che andrà via? Perché non godersela, questa specie di malinconia felice che una volta tanto sorride pure di gioia? Perché resistere all’istinto di dire no al divieto razionale all’affetto, ringraziando Luciano Spalletti per aver saputo contemplare il luogo che con diffidenza aveva contemplato lui? 

“Abbiamo attinto dagli allenatori precedenti”, ha detto Spalletti senza sconfessare per un istante il lavoro in attesa di una società, di una presidenza e di un ambiente che si è codificato addosso le sue regole per la vittoria, senza curarsi del metodo critico per principio, isolandosi nella propria, di felicità. Soltanto così, riuscendo a farla provare a chi da tempo ne aveva bisogno. Che sia vero o no, che sia giusto o sbagliato, in fondo, poco importa.

Luciano Spalletti ha confessato di essere stanco, di essere arrivato allo stremo delle forze che lui stesso non avrebbe immaginato così ostinate e durature. “Non posso più dare quello che questa città merita”. E lui il prossimo anno non porterà lo scudetto cucito sulla tuta. Andrà via così, con la maglia priva del segno del titolo. Un meraviglioso paradosso traccerà una linea di confine oltre la quale in ogni epoca, in ogni frangente, nel luogo per eccellenza di ogni tempo, oltre quella linea ci sarà sempre scritto Luciano Spalletti.