Cinque anni dopo. Un lustro è trascorso su tutto quello che non è bastato al calcio italiano. La predicazione di uno stile, un metodo, una contemplazione subdola e ipocrita di un pallone che è stato sconfitto da una visione. Una volta tanto, come tanti anni fa. Probabilmente ancora di più.

La sepoltura dei dubbi e delle perplessità mai al vaglio della trasparenza, adesso, esattamente cinque anni dopo, graverà dolce e imperturbabile come la reazione di Spalletti al gol di Raspadori. Non più due partite a distanza, non più un duello differito e calcolato dopo il tracollo di chi cinque anni fa non avrebbe retto un epilogo mortificante al primo anno del var.

Le due gare tra Napoli e Juventus di questo campionato sembrano essere state scritte da una giuria raffinatissima e di rara saggezza. Mai il calcio italiano ha avuto un volto così sfacciato e sincero. Cinque anni dopo. Sì, perché alla vigilia della gara di andata la Juve arrivò a Napoli quasi coi favori del pronostico, senza l’ombra e le preoccupazioni di sanzioni esterne, dopo otto vittorie consecutive e la miglior difesa. Abbastanza per far risuonare l’eco ambigua e tracotante degli “staremo a vedere”. 

A meno sette, con l’occasione pulita e per nulla condizionata di riaprire i giochi. Invece, 5-1 per il Napoli. Come nell’ultimo trionfo di Maradona a Fuorigrotta. E col più splendido e brillante dei paradossi. L’Allegri serrato e speculare che a Napoli è andata a giocarsela con spavalderia, con una formazione più spregiudicata rispetto alle attese. Quasi a voler dimostrare di saper fare meglio quello che da tanto tempo viene attribuito solo agli altri. E in quella serata mai scelta sarebbe risultata più azzardata e maldestra. 

Gara di ritorno. La Juve ospita il Napoli subito dopo la restituzione dei 15 punti di penalizzazione e con l’opportunità di riportarsi subito al secondo posto. Stavolta, però, con la felicità del passaggio del turno in Europa League. Formazione contraria allo spirito dell’andata. Più prudente e con qualche cambio a favore di turnover. E giù per tre quarti di partita con tutta la squadra dietro la linea della palla. In certi frangenti co undici uomini dietro la linea della propria trequarti di campo. 

Fino al capovolgimento di fronte che, in ossequio a quella vecchia “strana” classifica che a un certo punto ha ricordato a qualcuno che l’assistenza elettronica, elemento che resta tra i più alti momenti di civiltà sportiva del calcio italiano, alla Juve corregge di più e al Napoli restituisce di più, porta il i partenopei sull’1-0 finale, nel finale, come cinque anni prima. Stavolta, senza che nulla di differito e avvelenato potrà turbare. 

Perché, al di là dei processi, delle beghe da tribunale, dei formalismi e delle procedure, di quello che mai metterà tutti d’accordo e che sarà sempre diviso tra organismi che nemmeno si parlano e si conoscono, l’unica vera sentenza inappellabile arriva da una distanza di punteggio, di gioco e di qualità che nessun numero potrà mai quantificare. In faccia alla gioia d’ufficio di un Paese, nelle sue più ampie e articolate rappresentanze, che mai saprà comprendere fino in fondo la felicità delle cose. 

Ci si dimentica delle cose autentiche quando vengono imposte sempre le stesse facendole passare per superiori secondo elezione divina. In nome di un dogma nemico e utile solo all’alterazione della realtà. Nel campionato “dell’assenza di avversari”, che però stranamente vede due semifinaliste in Champions, due in Europa League e una in Conference League, molte cose sono al secondo posto in classifica. Un allineamento che, in realtà, somma un unico ultimo posto di infelicità.