In quel pianto ci siamo tutti. Il calciatore silenzioso. Il prodigio muto. Gli occhi puntati sopra il pallone, negli occhi degli avversari e nell’intorno del terreno di gioco. Lo sguardo triplice. Khvicha Kvaratskhelia. Al principio impronunciabile, adesso un suono comprensibile a chiunque.

In quel pianto ci siamo riconosciuti tutti. In quella posizione, in quell’istantanea che sarà tra i simboli di quest’impresa dentro un’epoca e contro un’epoca, col compagno di squadra a sorridergli per dirgli che quelle sono lacrime di vittoria, che Nike ha scelto il Golfo e che il Demone di Lermontov ha lasciato il Caucaso per fare innamorare un ragazzo venuto da lontano, per sentirsi subito vicino al sentimento parlante di una città-mondo che ha sempre saputo capire tanto il silenzio quanto le parole. Espresso in quel linguaggio col volto stretto e acuto verso le sue meraviglie, quel ragazzo si è fermato per un istante a ripensare che la sua corsa è durata un attimo e una vita. E che la felicità ha il miglior vizio di sfrontarsi sempre tenera e universale.

In quel pianto, in quell’assenso tacito e singhiozzante ci siamo riconosciuti tutti. Su quella panca sono comparsi i calciatori di una volta e quelli del futuro. La lancia trasversale che giavellotta l’intimità dei campioni, quelli veri, quelli che corrono spediti sopra il filo traballante della rarità, fionda la sua trasversalità sopra il capo di un ragazzo che in quel frangente nudo e indifeso ha eretto una muraglia invalicabile sopra i suoi sogni e oltre ogni altro mistero gioioso. 

Khvicha Kvaratskhelia. Il più sensibile, il più delicato, colui che un giorno potrebbe finire tra i più grandi nell’era in cui è facile diventare piccoli. Kvara, l’abbreviazione semplice del rischio percepito da chiunque vuole e vorrà sempre bene a questa persona. Col groppo in gola al pensiero di vederlo in pasto alle luminescenze dello show-business, mutato in quell’estetica che farebbe fuggire il Demone e Nike, delusi in un abbraccio amaro e contrario ai segni minimi e icastici del viso bianco ma mai impallidito di un uomo che pare venuto fuori dalla penna di Molnár e da una panca di uno spogliatoio gelido e caldissimo. 

Era ottobre quando in questo blog scrissi che la sua è la Tavisupleba, come per l’inno del suo paese. La Tavisupleba, che in georgiano vuol dire libertà. Che sì, sarebbe stato bello se nessuno lo avesse distolto da quello che è. Nessuno saprà quello che in quel pianto lui avrà protetto e custodito. Di certo nemmeno una parola è trapelata. E mai ne uscirà una. Pure Nike e il Demone hanno sporto l’orecchio. Senza successo. Lo scudetto è fatto anche di un pudore intimo e irrivelabile. E in quel pianto lo abbiamo inteso e taciuto tutti.