Un nuovo centro sportivo? Un nuovo stadio? Vent’anni sarebbero stati abbastanza per realizzare quello che adesso viene promesso e annunciato? Il futuro ha le gambe corte. De Laurentiis di tanto in tanto fa capolino nelle intenzioni che nessuno sa se siano autentiche o di circostanza. Destare polemica è stato il suo marchio di fabbrica. Dall’inizio al doppio decennio che ha avuto l’ironia della sorte di contemplare onore e imbarazzo - il destino a volte ha un’intelligenza strana, ma emblematica - la sua voce ha avuto sempre un tono di chi desidera la superiorità. A torto o a ragione. 

Quasi allo scoccare del ventesimo anno di gestione, lo scudetto gli ha conferito una gloria subito caduta in vortice che nasconde una psicologia che non è soltanto la sua. Perché la più grande impresa di Aurelio De Laurentiis non è stata sportiva, né imprenditoriale (questa al massimo sarebbe in suo esclusivo godimento), ma piscologica. Sì, perché la costruzione del suo sentimento ha divorato l’identità popolare di un simbolo che non è riuscito a mettersi al riparo da un cambiamento più grande. Cambiamento fino a un certo punto, perché se prima al potere del pallone c’erano i dinosauri, adesso sempre dinosauri sono, diversamente abbigliati in archeologi alla ricerca di chissà quali fossili da eliminare per far posto a uno sviluppo del calcio che traduce soltanto nuovi modi di fare affari.

La proprietà è diventata essa stessa sentimento, dividendo la folla tra chi ritiene che sia giusto che il padrone goda di piena e impudica facoltà di agire e chi, diversamente, lo detesta a prescindere dal suo operato, perché sopra ogni cosa esistono opere ed empatie che vanno oltre un risultato. In fondo è stato il trionfo di due torti, come spesso succede quando l’incertezza cade da una divisione. De Laurentiis ha convinto che essere padrone vuol dire essere tutto. Un principio capitalistico ha declinato un’irremovibilità personale da se stesso, pure nell’errore, pure nella contraddizione e nella debolezza. Tutto è finito dentro la macchina del principio esclusivo. Ci è finito dentro pure lui, fino all’ammissione, non sappiamo se ruffiana o genuina, di colpe scaturite da scelte avventate e affrettate o da concessioni a chi, a suo tempo, gli aveva fatto del bene.

Tuttavia verrebbe da chiedersi, o da chiedere al diretto interessato, perché in pochi mesi sono andati via Elmas, Lozano, Kim, Ndombele, di fatto Zielinski e Osimhen, a favore di nuovi ingressi che, al momento, non sembrano nemmeno lontanamente essere all’altezza di una parte consistente della grande squadra della scorsa stagione. 

Ferlaino riuscì a trattenere Maradona (“In fondo mi sono sentito come il suo carceriere”), con le dovute proporzioni e le differenze del caso, tante differenze e di grande entità. De Laurentiis non è riuscito a trattenere Spalletti. E non che Spalletti fosse la formula eterna del successo, ma perché quell’allenatore avrebbe potuto rappresentare la separazione di sicurezza tra la squadra e quella proprietà che a un certo punto è diventata due elementi troppo ravvicinati. L’ordine e l’entusiasmo sono coincisi, ma dall’animo di una spinta che non ha mai saputo portare dentro entrambi questi poteri oggi così difficili da coniugare e da far coesistere. 

Questa, probabilmente, è stata la grande riforma del pallone a Napoli da parte del suo attuale presidente. Difficile dire se tutta giusta o tutta sbagliata. Messa lì, a parlare di sé e a favore di sé, come se ci fosse ancora tanto di cui convincersi. In qualcosa che si predica continuamente forte si annida uno spazio caotico da cui può nascere qualunque cosa. Una delusione o un trionfo. Sperando che qualsiasi esito, almeno, resti muto.