Il Napoli di questa stagione è destinato a pagare un peccato originale che ha gli stessi anni di quelli dell’attesa del terzo scudetto. Il 91 è il primo numero inesistente della tombola, ma a Napoli viene estratto già da molto tempo. Come quel Napoli-Inter che ha ricordato molto da vicino quel Napoli-Sampdoria (1-4) del campionato 90\91 che, a dispetto di un punteggio così netto, sbugiardò la realtà delle cose ben diverse dagli equilibri che si determinarono in un sistema di forze e debolezze iniziato nei mesi immediatamente successivi il secondo scudetto e la Supercoppa italiana. E la felicità allevò diabolicamente la sua nostalgia.

Con l’Inter il Napoli ha subito una sconfitta che solo la miopia della cultura del mea culpa a tutti i costi può considerare giusta. Il gol irregolare dell’1-0 e il rigore non assegnato, sempre sull’1-0, non avrebbero deciso il risultato, ma una cosa molto diversa, che sono in tanti a trascurare. È il come sarebbe andata a finire che sistematicamente va a farsi benedire quando non si capisce come e perché un’azione irregolare non venga sanzionata o un rigore non venga concesso. Tutto in nome di un luogo a procedere ambiguo che attiva o disattiva il var a dispetto del risultato e di quello che un errore condizionante possa provocare.

Napoli-Inter ha probabilmente escluso definitivamente il Napoli dalla lotta per il titolo. Stavolta, dopo i famigerati 33 anni, per difenderlo, e magari per dimostrare una volta tanto che da certe parti la felicità non sempre è destinata a trasformarsi in nostalgia. Basta già il divario che ogni volta striscia silenzioso a ricordare che la storia della serie A è fredda e aristocratica molto più di quanto una narrazione di consumo voglia mistificare. 

Tornando ai limiti tecnici e psicologici di questo Napoli, molto è da attribuire all’accentramento estivo che De Laurentiis ha voluto compiere scegliendo un allenatore sbagliato, molto sbagliato, e ignorando che certi profili andavano sostituiti molto più attentamente. Da una parte Spalletti ha “portato via” uno staff che non ha perso tempo a seguire i sogni di gloria nazionali, e che, sia pur la parte meno sotto i riflettori di questa volta, è entrata nella solita storia di chi passa per Napoli e non ci resta. Perché, un po’ per difetto presidenziale, un po’ perché fa comodo a molti, Napoli è il gioiello di passaggio per farsi notare e per scongiurare di poterci rimanere per cercare di farlo brillare più a lungo. Passi più spesso che è Napoli a servire a molti e non il contrario. E lo dimostra la storia dell’allenatore che all’ombra del Vesuvio ha trovato una gloria che altrove aveva bruciato insieme a una terra che non lo gradiva più. 

Sull’organico poco c’è da meravigliarsi. Perché Cajuste non è Ndombele, Lindstrom, al momento, non ha dato nulla che possa accostarlo al rendimento di Lozano, e i centrali difensivi non hanno saputo far dimenticare quel Kim che nessun investimento oculato o coraggioso ha saputo sostituire. Senza considerare i troppi rinnovi sospesi che non hanno aiutato alcuni calciatori a sentirsi dentro la tensione dell’impresa per poterla continuare con lo stesso entusiasmo della scorsa stagione. È quanto mai emblematico e stucchevole che Kvara guadagni quanto un calciatore qualunque. 

La devastazione tattica, preceduta da una preparazione atletica molto discussa e discutibile, ha condotto l’indebolimento strutturale a un ridimensionamento che sotto sotto fa un po’ rabbia. Perché spesso in campo si nota una squadra – con l’Inter il portiere nerazzurro è stato il migliore in campo – che ha un grande potenziale, ma che vuoti e stalli troppo frequenti in partita non riescono a fare esprimere. E non c’è nulla di più stupido che saper fare qualcosa e non lavorare alle condizioni per esprimerlo.