“Tutto senza una spiegazione coerente. Martín sentiva che in qualche modo quegli avvenimenti oscuri e violenti erano legati al proprio dramma, al proprio dramma ambiguo e indecifrabile di argentino solitario e senza protezione. E poi venne la notte. E la pioggerella cominciò a cadere silenziosamente su una città sconvolta e minata da voci sotterranee.”
Ernesto Sábato, Sopra eroi e tombe
La contraddizione. Talvolta acquisita, altre volte attribuita. Un manto scuro tessuto in maglie di sangue e avorio, l’abito sopra la storia dell’Argentina di là dal mare. Ne hanno fatto parte in molti. Politici, artisti, intellettuali, sportivi. Un’umanità soffusa e diffusa, reduce da un decadentismo postumo e infelice, ha attraversato i drammi di un secolo e oltre dentro un campione della storia che li ha conosciuti tutti. Il pallone è finito come certi romanzi, tra la gloria e la carcerazione, la luce e il sottosuolo, i bagni di sangue, i processi e le riesumazioni.
Ne hanno fatto parte in molti. Pure quelli che abbiamo amato. Il fascino del paradosso ha sospeso ogni giudizio. Ammirazione e morale in conflitto. Nella più splendida e patologica delle epopee. César Luis Menotti ha fatto parte di una lunga storia. Impossible raccontarla tutta. Di lui, come di quegli anni andati e irrisolti, resta l’enigma ipnotizzante su chi siano stati davvero i suoi protagonisti.
César Luis Menotti era di sinistra, nonostante Videla e Galtieri, nonostante il divieto violento su un concetto che nell’Argentina che lo vide trionfare da guida tecnica della selección nacional vigeva tra i sequestri dei militari e i sorvoli degli aerei spinti dal carburante e dal pentothal. Menotti si disse estraneo e utilizzato, in contrasto con chi lo aveva scelto e con se stesso.
Un intellettuale del futbol avverso e favorito, proprio come la politica delle più tremende strategie ha sempre saputo fare. E il Novecento è stato il secolo del tremendismo a capo delle scelte. Le più brutali e spietate soluzioni sono passate per la raffinatezza. E Menotti è stata tra le figure che un sistema di sangue e di morte scelse per non fallire.
Tutto suo malgrado, tutto sopra la passione per qualcosa di enorme, di davvero popolare. I tempi di Menotti alla guida della nazionale argentina per i “mondiali della vergogna” furono i tempi in cui una dittatura militare adottò l’amore del popolo per andare contro il popolo. E questo, e valga come omaggio a uno tra i maestri della storia del calcio, forse sarà stato il più grande dolore per uno come Menotti. Che non amava la disciplina, un certo tipo di disciplina, che la considerava qualcosa di militaresco, ma che nel 1978 non portò Maradona con sé, perché ritenuto troppo giovane per essere gettato in una mischia in cui i Luque e gli Houseman avrebbero lottato fino all’ultimo sangue, nel vero senso della parola, per proiettare sul terreno di gioco la metafora involontaria di quanto stesse accadendo intorno a quei campi di calcio.
E Menotti avrebbe poi condotto Maradona a vincere il mondiale giovanile un anno dopo il ’78, sempre con la dittatura addosso e la voglia di non smettere di credere nei giovani. La protezione del Pibe in quel campionato del mondo forse gli valse un elemento nascosto di maturazione, chissà. Benché in contrasto con l’ardore di un astro nascente, averlo tenuto lontano dai quegli oscuri clamori forse gli valse una carica diversa di tensioni. Forse il Maradona del 1986 rimarrà figlio anche di quella formazione.
Luis Menotti ne avrebbe lanciati altri di campioni. Non come Maradona, ma tanti. Probabilmente anche per rifarsi dai quei momenti in cui nessuno saprà mai quante scelte, quante facoltà personali gli fossero state realmente garantite. Sin dal principio, quando nel giorno del golpe militare in Argentina non si è mai saputo se lui abbia votato a favore o contro la richiesta di Videla di giocare comunque l’amichevole prevista in una tournée all’estero.
Chi ama quella parte del calcio colorata di pastello malinconico e rugginoso, con l’odore acre e dolcissimo di quei liquori da tarda notte, non può dimenticare la storia del “Flaco”, di Menotti, l’uomo alto sopra i pensieri bassi del pallone. Messo lì per elevarli. In qualche modo per salvarli e restituirli a chi con maggiore serenità potrà leggerli senza il sospetto di connivenze e collaborazioni. Intere generazioni ne sono state vittime.
Probabilmente tanto quanto quel popolo che Menotti amava e stimava, e che lui stesso vedeva sulle tribune prima di ogni partita. Lì in mezzo c’erano gli stessi studenti e lavoratori finiti nelle segrete della Escuela de Mecánica de la Armada. Qualcuno aveva diviso una nazione con una ferita destinata a rimanere indelebile. Almeno, però, sarà stato utile pure tentare di accorgersi di chi era rimasto.