Ha detto più cose quest’annata da dimenticare che quella da ricordare. Un campionato anonimo e senza sussulti e delle coppe giocate senza avere la sensazione di potervi realmente competere hanno detto più di uno scudetto e di una Champions giocata ad altissimi livelli. Il dopo, per quanto aspro e indigeribile, vale più del prima dolce e difficile a ripetersi.

In occasione di Napoli-Frosinone Spalletti è andato a fare visita a un luogo spento che forse tarderà molto a riaccendersi. Non è una questione di risultati, non è una faccenda di gioco o di sconfitte. Il Napoli di quest’anno ha perso prima di tutto con se stesso. Una resa che probabilmente ha coinvolto tutti. Un fallimento iniziato dall’atteggiamento della presidenza fino alla facile tendenza a deprimersi di una tifoseria che non è riuscita a resistere alla dottrina del successo. In mezzo, due allenatori inadeguati e un terzo che ha fatto da curatore fallimentare. Davanti a una squadra bambina. Sì, perché in costante atteggiamento misto di debolezza, tenerezza, infantilismo e arrendevolezza. Una squadra che per tanto tempo ha detto ai suoi tifosi ne riparleremo domani perché adesso non ne sono capace.

Il Napoli aveva stravolto con uno scudetto lo statuto della gloria figlia naturale solo del danaro e degli investimenti, col padre potere dei soliti club e la protezione della famiglia istituzionale. Ma lo stesso metodo che era servito a comporre lo spartito dell’impresa ha scaraventato tutto nel verso opposto. E alla squadra non è parso vero di adagiarsi su degli allori che non potevano essere sufficienti a difenderla dalle critiche, giuste o sbagliate è un aspetto soggettivo, di pubblico e addetti ai lavori. 

Una squadra che per proprio demerito, e per demerito della società, è andata in campo con giocatori andati via prima della fine. Se l’anno scorso in campo ci andavano degli uomini protesi verso un avvenire di gloria, con quello sguardo “oltre la partita”, per “guardare quello che c’è dopo l’avversario di oggi”, come diceva Spalletti, quest’anno in campo è andato un gruppo dove ogni pensiero e ogni tensione si sono rivelati poco a poco fini a se stessi. Talvolta pure nel tentativo di riaversi. Ma chiunque pratichi una forma di entusiasmo sa che non c’è tensione sufficiente laddove il presente è tediante e il futuro ha il volto di chi non mantiene una promessa.

Una squadra di calcio, in parte composta da nuovi ingressi altrettanto inadeguati e da un gruppo di vincenti che si sono accorti di esserlo stati perché rispondenti a un codice solo, una regola unica a cui quello stesso gruppo non ha saputo trovare alternativa, si è deteriorata sotto i colpi di una gestione societaria al risparmio e convinta che il tricolore sul petto fosse sufficiente a garantirle gli equilibri a cui si era adagiata da tempo e in cui lo scudetto era sortito come variabile imprevista.

Una vittoria attesa da tanti anni si è rivelata pericolosa, perché ha spostato il Napoli dalla regione di conforto dove per tanto tempo ci si era abituati a tendere alla vittoria senza raggiungerla. Adesso è arrivato un allontanamento desolante e definitivo. Non c’è una cosa che non si sia smarrita.