C’era una volta il non avevamo nemmeno i palloni. In principio fu un verbo romantico e valoroso. E lo furono pure le intenzioni. Fino al punto che pure le colonne ultrà intonarono cori e inneggiarono striscioni di sostegno alla nuova presidenza.

Nel 2004 i fatti dissero che era fallito il Napoli delle cattive gestioni e degli avventurieri. Che qualcosa era finito perché il terreno di gioco era stato superato da faccende lontane dai palloni mancanti e la squadra completata alla bell’e meglio prima del debutto col Cittadella. E in quella domenica uno stadio pieno di tifosi perdonò con tutto il cuore una rimonta patita nei minuti finali. Da 3-1 a 3-3. Ma il Napoli era stato mandato in campo senza nemmeno allenarsi. Senza preparazione, senza una campagna acquisti e la possibilità di iniziare subito la rincorsa al calcio che conta.

I tifosi lo capirono e lo perdonarono. Anzi, guardarono soltanto ai tre gol segnati, all’allegria di calciatori sconosciuti, alla grinta di altri che in quel frangente scelsero di ricostruirsi una nuova carriera. Erano fallite le carte, ma lo spirito era rimasto intatto. Forse, più forte di prima. Il Ciuccio si era ripresentato nelle sembianze dell’araba fenice.

Ecco che è un paradosso contemplare questo Napoli con amarezza. Nonostante la piena presenza tra le qualificate in Champions. L’amarezza è dovuta al fatto che certi risultati a volte sono traguardi, altre volte consolazioni residuali. Soprattutto se arrivano nel corso del tempo come andamento da protocollo, come uno standard senza grosse sorprese, né evoluto né involuto, per lasciare le cose come stanno. Per comodità. Ma si arriva al tedio. Quello, prima o poi, si manifesta nelle forme più ambigue. E si prende gli entusiasmi. È per questo che il Napoli di Reja, pure a metà classifica, destava rispetto e sostegno. È per questo che quello di Mazzarri trovava un seguito al limite dell’immaginazione.

Fino a un certo punto, l’epoca De Laurentiis ha riproposto fasti e speranze d’altri tempi. Ha fatto confidare nel recupero di qualcosa di importante. Poi, nel tempo, complici tanti aspetti, quella stessa epoca ha rivelato che una linea l’aveva già tracciata quando dava impressione di non volerne tracciare alcuna. Allora, arrivati a quella soglia, sostarvi troppo a lungo ha logorato chiunque costretto a restarvi senza riuscire, volere – non possiamo saperlo – a oltrepassarla.

È vero che quest’anno, per l’ennesima volta, i partenopei sono andati vicinissimi a lottare per lo scudetto fino alla fine. C’è stato un momento in cui sono stati in molti a sentire che sarebbe stato l’anno buono. Ma è stato un inganno. Paradossale, pure questo. Ma un inganno. Il Napoli è scomparso a fine novembre. Dopo undici giornate segnate da un ritmo da record, con dieci vittorie e un solo pareggio, la prima sconfitta, quella maledetta serata di Milano, caratterizzata da un serie di infortuni uno peggiore dell’altro, il Napoli ha smesso di giocare. Lo ha fatto pure quando ha vinto. Ma vinto si fa per dire. Perché nelle successive 23 partite gli uomini di Spalletti hanno vinto solo 10 volte. 10 vittorie su 23, comprensivo di ben 7 sconfitte, è un rendimento significativo, molto significativo. E non vale di certo l’alta classifica. Anzi.

Se il Napoli andrà in Champions, sarà solo perché molte delle altre pretendenti sono state mediocri e deludenti, e perché in qualche misura quella partenza formidabile durata fino ai primi di novembre rappresenta un contrappeso a distanza ancora molto pesante.

Dai primi di novembre il Napoli è stato questo in campionato, è uscito al primo turno di Coppa Italia subendo cinque goal tra le mura amiche e ai sedicesimi di Europa League, con l’alibi, almeno quello, che a eliminare Insigne e compagni è stato il Barcellona. Tuttavia, si ricordano “crocifissioni” e gogne mediatiche per allenatori che hanno fatto molto molto meglio. Qualcuno voluto via da mezza piazza e giornalisti nonostante avesse portato fino in fondo gli azzurri in tutte le competizioni e con un organico molto modesto dalla mediana al portiere.

Il Napoli del dopo Sarri ha attraversato una lunga e tormentata gestazione fatta di momenti di involuzione e sprazzi di reazione, adesso con periodi esaltanti, ora con cadute impreviste e inspiegabili. Un freno invisibile tiene in stallo emozioni e ragioni di un ambiente che dal campo agli spalti nel corso del tempo ha sedimentato una noia infelice, di tanto in tanto interrotta da momenti di speranza che qualcosa avrebbe potuto superare la linea di una programmazione fine a se stessa.

Poco a poco, tra incursioni mediatiche non sempre chiarissime da parte di De Laurentiis, altre fin troppo chiare, a ribadire che il calcio è un gioco da vendere allo spettacolo per lo spettacolo, a ricordare che si è affezionati a bilanci da far quadrare che altrove nessuno quadra, a dire a chiare lettere che a trionfare deve essere qualcosa che il tifoso nemmeno conosce. E che si vede da come vanno i calciatori in campo. Per un grande e sofferente motto di spirito. Certi risultai e certe delusioni arrivano anche e soprattutto per questo.

Quando si predica una pedagogia del sostegno e della pazienza indotte alla paura di perdere tutto, invece che di lottare su tutto. Si diventa mediocri, vili e si perdono pure le partite già vinte. Allora pure una qualificazione in Champions League diventa triste, quando a trionfare sono le carte e a fallire è lo spirito.