Il Napoli della pandemia fino a questo momento ha saputo fornire una sola certezza: una linea di confine tra il sé e il contro di sé; un solco scavato per trincerarsi in un perpetuo e tormentato avverso se stesso. 
Laggiù, in fondo al traguardo di quest’ultima parte di stagione, campeggiano titoli e obiettivi, ma pure un cartello con su scritto bisogna ritrovarsi. Un po’ per tutte, ma, probabilmente, per questo Napoli ancora di più. Una stagione e mezza incollate da una pausa troppo breve hanno condotto tutti, ma proprio tutti, verso una overdose di un calcio vissuto a mo’ di videogame. Il pixel e l’hd come surroga alla sua essenza più antica e profonda. Il respiro è stato corto, assistito dalla macchina dell’andiamo avanti a tutti i costi, fino al conflitto tra la legge e i protocolli privati. 

Il Napoli del Gattuso partente ha dovuto subire i propri vizi e ha dovuto reprimere le sue virtù a causa di una sequenza e di una contemporaneità di infortuni al limite dell’immaginazione. C’è stato un momento in cui l’allenatore ha dovuto fare a meno di interi reparti, arrangiando formazioni d’emergenza, talvolta forzando cambi e impieghi di calciatori non ancora pronti per giocare. Troppo, pure per abbracciare la croce retorica dell’assunzione delle proprie responsabilità. 

Osimhen ha praticamente compromesso la sua stagione quasi subito, affrontando prima un grave infortunio e poi, come se non fosse stata abbastanza aver rischiato una spalla, è arrivato un trauma cranico. Mertens si è fermato nel momento più importante (emblematico l’infortunio a Milano con l’Inter) e pure lui ha dovuto saltare un bel po’ di gare. Quando sembrava dare cenni di ritorno, Ghoulam ha dovuto dire addio alla stagione e adesso nessuno sa quando potrà tornare a giocare. Il reparto difensivo ha visto infortunarsi praticamente tutti, così come il centrocampo se l’è passata male per un bel po’. E tutto il peggio si è accanito nella frazione di stagione in cui cadevano impegni di coppa e di campionato. Nella storia del Napoli mai si erano verificati un così gran numero di stop, per quantità ed entità. 

In questo grande handicap la società non ha saputo gestire momenti ed emotività, trovando la giusta soluzione solo in un silenzio stampa che sembra aver giovato al gruppo e ha alimentato le solite voci destabilizzanti di mercato per bocca di quella stampa asservita alle gerarchie finanziarie e mediatiche, oppure avvelenata dal contro per partito preso che si alleva in casa. 

La colpa del Napoli è stata quella di aver sprecato tanto quanto subìto dalla catastrofe atletica. Torino, Spezia, Genova, Sassuolo, solo per citarne alcune, dicono di tanti punti avuti tra le mani e buttati via da smarrimenti e goal divorati, oltre a una colpevole quantità di ingenuità difensive. La classifica avrebbe potuto dire tranquillamente ben altro, invece di una lotta per il quarto posto che si preannuncia serrata e per nulla scontata in un finale che la serie A chissà se pregusti con quattro piazzamenti a settentrione. A tanti piacerebbe che fosse così, ma nessuno lo dice. Il peggio del vecchio calcio quello nuovo non lo ha perduto.  

Adesso, la società dovrebbe cercare di pensare già a come accompagnare questa fase rassicurandosi di non smarrire niente di tutto il buono che arde sotto la cenere. Calciatori come Meret, Koulibaly, Fabian Ruiz e Insigne possono essere considerati soltanto lontanamente cedibili? Il Napoli è in un momento storico in cui non può permettersi di sottrarsi altra forza. Le contemporaneità generazionali impongono, per la prossima stagione, il tentativo ultimo di qualcosa che non può ancora guardare da lontano i tempi di maturazione. C’è da capire se fuori da quella buca di inquietudini, sfortune e ingenuità ci sia qualcosa che non è stato sottovalutato e che ha voglia di piantarla di vedersi come il peggior nemico di se stesso. Questo è il problema più grande che dovrà risolvere il nuovo allenatore. Altro che tattiche, moduli e altre spiritosaggini da talk show.